YASSER ARAFAT, RICORDO DI UN GIUSTO
di Agostino Spataro


YASSER ARAFAT
E AGOSTINO SPATARO
A ROMA NEL 1982

Yasser Arafat desiderava venire in Sicilia, per visitare Palermo. Più di una volta, mi manifestò questo desiderio. Come ogni arabo, egli teneva “la Siqilliya nel cuore”. Così mi disse al termine di un incontro notturno nel bunker del suo quartiere generale di Beirut, al quale io, membro della commissione esteri della Camera, mi presentai con un carrettino siciliano. Un gesto un po’ naif, tuttavia molto gradito, poiché rappresentava la Sicilia che, ancora oggi, al pari dell’Andalusia, (già “dar al islam”= territori dell’Islam) evoca nell’immaginario arabo la visione mitica di una civiltà che, in un momento buio, assicurò al mondo la luce del progresso e della modernità.

E Palermo, con la sua corte cosmopolita di scienziati ed eruditi, con le sue trecento moschee, con i suoi ricchi commerci e le sue fabbriche, i suoi giardini, i sontuosi palazzi, i bagni, era una delle perle più pregiate di quel vasto impero che si estendeva dall’Atlantico all’Asia centrale.

Di una visita di Arafat in Sicilia si parlò a più riprese. Una prima volta, a metà degli anni ’70 per partecipare ad una conferenza internazionale sulla pace nel Mediterraneo, promossa dal PCI, che avrebbe dovuto svolgersi a Palermo. Arafat ed altri leader arabi erano pronti a venire, ma l’iniziativa fu annullata, senza tante spiegazioni.

Di tanto in tanto, l’ipotesi riaffiorava, ma mancò l’occasione adatta ad una grande personalità internazionale come Arafat.

In ultimo, si sperava che sarebbe venuto a Erice, proposta dal governo italiano come sede degli eventuali colloqui di pace fra palestinesi ed israeliani.

Ad Erice o altrove, purtroppo mister Palestina non ci sarà.


YASSER ARAFAT
E AGOSTINO SPATARO
A ROMA NEL 1998

Queste scarne note non vogliono essere un “coccodrillo”, ma solo un personale ricordo di Yasser Arafat, uno dei pochi grandi uomini del nostro tempo che ha impersonato, con coerenza e sapienza, il dolore e la speranza di un popolo che lotta per la terra e per la libertà; l’unico al quale, dopo 56 anni, si continua a negare il pieno diritto all’autodeterminazione.

Eppure, c’è chi si ostina ad accusare Arafat. Certo, anche lui avrà sbagliato. L’importante è che, anche quando si sbaglia, ci si trovi nel campo dei giusti e non dall’altra parte della barricata. E Arafat è rimasto dalla parte del popolo martire di Palestina, fino all’estremo.

La prima volta l’incontrai, a Lisbona nel 1977. Ero un deputato non ancora trentenne, visibilmente emozionato di far la conoscenza del fondatore e capo dell’Olp.

Confesso che, a prima vista, provai una piccola delusione. Per il suo aspetto fisico che non mi parve consono coi canoni del mito dell’eroe rivoluzionario, già allora, incarnato dal volto austero e romantico del compagno comandante Ernesto Che Guevara.

Secondo una idea, un po’ bizzarra allora in voga, il vero rivoluzionario doveva possedere spiccate qualità politiche e militari, associate al carisma e perfino alla bellezza fisica.

Arafat, invece, si presentò come l’uomo che era: l’aspetto dimesso e un po’ trasandato, addosso una lucida divisa grigioverde e l’inseparabile “kefiah”.
Gli unici indizi del suo essere rivoluzionario erano quella divisa e la piccola pistola che gli pendeva sul fianco.

Mi colpì il suo sorriso che pareva stampato in mezzo alla barba ispida, sotto due occhi rigonfi corrosi dall’insonnia. Sorrideva sempre, abu Ammar, anche quando parlava dei più truci misfatti compiuti dalle forze di occupazione. Verso gli israeliani non provava odio.

Mostrava rispetto per l’interlocutore, sapeva ascoltare. Era un buon diplomatico, dotato di self-control. Solo una volta lo vedemmo sbottare, durante l’incontro di Beirut, contro Fabrizio Del Noce, attuale direttore di Rai1, il quale, forse non riuscendo a separare le idee private dalla funzione del servizio pubblico, colse l’insperata occasione d’intervistare il capo dell’OLP per bersagliarlo con una sfilza di perfide domande che, a tutti costi, volevano dimostrare il “terrorismo” di Arafat e dei palestinesi.
La situazione precipitò in pochi attimi. La guardia del rais sequestrò la telecamera all’operatore e “accompagnò” il giornalista del Tg1 in una stanza attigua. Apriti cielo! Chiedemmo ai palestinesi di restituire l’attrezzatura e il furente Del Noce che, riappacificatosi con Arafat, restò per continuare l’intervista. Erano le tre del mattino. Diedi ad Arafat il carrettino siciliano con i saluti di Enrico Berlinguer. Da quel momento, per lui divenni “abu Siqilliya”…

Al ritorno a Roma, ci impegnammo a raccogliere le firme prima per una petizione e poi una mozione parlamentare per chiedere al governo il riconoscimento dell’Olp. Ne raccogliemmo 450, fra le quali quelle dei segretari dei principali partiti (Zaccagnini per la Dc, Berlinguer per il Pci, Craxi per il Psi) e di altri.

Per la prima volta, la stragrande maggioranza di un Parlamento occidentale avanzava una richiesta così impegnativa. La mozione verrà approvata, tuttavia il capo del Governo, Spadolini, non seppe innalzarsi al di sopra del suo cieco antiarabismo e non se ne fece nulla.

Fu il Presidente Sandro Pertini a rimediare al danno, invitando ufficialmente in Italia Yasser Arafat, il quale tenne un importante discorso nell’aula della Camera dei Deputati.

Quella visita fu un grande successo per la causa palestinese. Al pranzo, “fra amici”, al Gran Hotel di Roma, si ricordò di “abu Siqilliya”, mi abbracciò forte, come quando si saluta un parente emigrato che parte per un paese lontano.

L’avrei rivisto altre volte a Damasco, Bagdad, Tripoli, Tunisi in occasioni di conferenze internazionali. L’ultima, di nuovo a Roma, dove gli chiesi di scrivere la presentazione ad un libro al quale stavo lavorando (Il fondamentalismo islamico).

Il libro uscì, per i tipi degli Editori Riuniti, subito dopo la strage dell’11 settembre.

Nel suo pregevole testo, Arafat mi ha onorato con lusinghiere parole di stima e di amicizia, e di ciò gliene sarò sempre grato, e- fatto della massima importanza politica- ha condannato la pratica del terrorismo come metodo e via per la lotta di liberazione dei popoli, riproponendo la necessità del dialogo e della pace fra le nazioni e, in primo luogo, fra palestinesi e israeliani.

Queste stesse cose ribadì, sostanzialmente, in una memorabile intervista al “New York Times” del dicembre 2001.

Si diceva che Arafat avesse sette vite, come i gatti. A ben contarle, forse ne ha avuta qualcuna in più. Ora se ne è andato, per sempre. Ai palestinesi resta l’arduo compito di realizzare il suo sogno, a noi resta il dovere della solidarietà e il venerato ricordo di un uomo giusto che, da vivo e da morto, ha dominato con la sua immagine lo scenario mondiale, ma che non ha potuto…venire a Palermo.

Agostino Spataro - 11 novembre 2004

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