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( ANALISI )


"East Bank first school" e la definizione di una nazione giordana.

del dott. Roberto Storaci

I rapporti tra la Giordania e i palestinesi sono stati, come abbiamo visto anche negli articoli precedentemente apparsi su questa rivista[1], una delle determinanti dell'azione diplomatica giordana, almeno fino al 1988, anno dello storico disimpegno di re Hussein dalla Cisgiordania. Ma essi hanno anche costituito, e continuano a costituire, una delle dinamiche principali del discorso politico interno in Giordania. Per questo ci è sembrato giusto concludere questo ciclo di articoli sui rapporti giordano-palestinesi soffermandoci su quello che rimane uno degli aspetti più importanti, e più intricati, per la definizione delle future realtà giordana, e regionale.

I giordano-palestinesi e la dubbia fedeltà.

La presenza di una maggioranza palestinese in Giordania, la cui fedeltà ultima potenzialmente non è rivolta alla monarchia hashemita, è stata costantemente indicata come la principale fonte di instabilità del regime in Giordania, e come la possibile giustificazione agli argomenti degli israeliani della scuola di Sharon, secondo i quali la Giordania è la Palestina, o ad una possibile rovesciamento del regime seguito dalla presa di potere della resistenza palestinese. Peter Gubser, ad esempio, scriveva che "la distinzione tra palestinesi e transgiordani costituisce la più seria e, a volte, più pericolosa divisione per la nazione in Giordania - ed ha un'origine relativamente recente. Prima della guerra Arabo-israeliana del 1948, esistevano solo transgiordani nell'emirato di Giordania.[2] Una delle maggiori conseguenze di questa guerra, comunque, fu l'incorporazione della West Bank nella Giordania e al conferimento della cittadinanza a tutti gli abitanti della West Bank e a tutti i rifugiati palestinesi che si trovavano nella East e nella West Bank dopo la guerra"[3].

Se i giordani di origine palestinese hanno sicuramente costituito una vasta maggioranza della popolazione giordana fino al 1967, l'esatta proporzione della componente palestinese dopo la perdita della West Bank è stata, ed "è ancora oggi un segreto altamente classificato"[4]. Françoise de Bel-Air scrive che "a partire dall'attribuzione della nazionalità giordana ai rifugiati palestinesi nel 1949, dalla Guerra dei Sei Giorni e dall'attraversamento del Giordano da parte degli sfollati[5] del 1967, ma soprattutto a partire dalla scissione dei legami amministrativi con la West Bank del 1988, la proporzione di persone di origine palestinese in Giordania rappresenta una delle poste in gioco principali della politica interna ed estera di questo paese [.] si vede dunque fino a che punto la diffusione delle cifre riguardanti la proporzione dei giordani di origine palestinese in Giordania possano essere caricate politicamente, anche se non poggiano su alcuna base scientifica reale"[6]. Le cifre fornite dai vari autori variano perciò dall'80 per cento, rivendicato in alcuni ambienti israeliani per giustificare il richiamo alla "patria alternativa" (al watan al badil) per i palestinesi in Giordania, al 30-40 per cento indicato dai nazionalisti transgiordani. Secondo questi, come scrive Valerie Yorke, "i transgiordani hanno costituito una maggioranza nella East Bank a partire dalla perdita della West Bank nel 1967. Pur ammettendo le difficoltà nel definire precisamente le dimensioni di queste due comunità, questa scuola sostiene che esistano statistiche ufficiali che indicano che i palestinesi oggi comprendono solo il 40 per cento circa della popolazione. L'argomento continua che la monarchia ha un interesse nel perpetuare il concetto di una maggioranza palestinese. I sostenitori di questi punto di vista sostengono che, sin dal periodo 1948-49, con l'afflusso dei palestinesi, la monarchia comprese che l'incertezza creata dalla mutata composizione demografica del paese aveva fornito agli hashemiti un possibile mezzo di pressione negli affari interni - coi transgiordani che dipendevano dal re per proteggere i propri interessi. Ma questo particolare aspetto del legame tra i transgiordani ed il trono teoricamente assunse una minore importanza dopo il 1967 [.] il regime, tuttavia aveva un forte interesse nel preservare la sensazione tra i transgiordani di essere superati nel numero perché questo contribuiva a saldarli al regime"[7]. Valerie Yorke riferisce poi, che questa presunta maggioranza palestinese in Giordania era anche funzionale nel mantenimento delle pretese hashemite di un ruolo in Palestina e nel giustificare l'impegno diplomatico giordano per il ritorno della West Bank anche nel dopo Rabat. Attualmente, anche se come si è visto non esistono cifre ufficiali e incontestabili, la proporzione di giordani di origine palestinese più comunemente accettata è tra il 50 e il 60 per cento, considerando una percentuale di circa il 50 per cento negli anni Settanta e Ottanta, cui si devono aggiungere i palestinesi giunti in Giordania dal Golfo, ed in particolare dal Kuwait, a seguito della Guerra del Golfo. A cinquant'anni, dunque, dall'annessione della Palestina Centrale, che mutò completamente la struttura demografica e politica della Giordania, è ancora vero, come scriveva Arthur Day negli anni Ottanta, che "il filo più sospetto nella società giordana è quello che lega i giordano-palestinesi con i giordani originari della East Bank"[8]. Questo perché se durante gli anni del mandato, Abdallah, con l'aiuto dell'autorità mandataria britannica, era riuscito a fondere le diversi componenti transgiordane in un'entità unica, legando i vari segmenti della società al regime hashemita sia attraverso la costituzione di interessi costituiti e l'amministrazione efficiente del territorio, sia guadagnando per la dinastia hashemita, fondamentalmente anch'essa straniera, una legittimità "tribale", facendo del sovrano una sorta di shaykh ash-shuyukh, arbitro ultimo sovra-tribale, l'integrazione della componente palestinese al regime hashemita e la costituzione di un'identità ibrida hashemita che superasse le divisioni  giordano-palestinesi risultò un'impresa ardua.

Abdallah e Hussein dopo di lui, non riuscirono infatti a legare completamente al regime di Amman la componente palestinese, la cui lealtà ultima alla monarchia hashemita rimase sempre dubbia, mentre il richiamo di lealtà alternative, il panarabismo nasseriano, prima, il nazionalismo palestinese espresso dall'OLP, poi, fu sempre molto forte.

Senza dubbio la componente palestinese, ostile all'orientamento filo-occidentale della monarchia e favorevole al nazionalismo pan-arabo progressista di Nasser, costituì negli anni Cinquanta e Sessanta il nucleo e la componente più cospicua dell'opposizione radicale alla monarchia hashemita, rafforzando così l'immagine della dubbia lealtà. Come scrive Abu Odeh, "il modello di interazione con il governo della West Bank produsse un impressione tra l'élite di governo ad Amman che il palestinese fosse "il cattivo ragazzo", uno scontroso agitatore. In contrasto, il transgiordano coinvolto nell'azione politica dell'opposizione, anche violenta, era visto come il "bravo ragazzo" fuorviato. Queste impressioni furono perpetuate dalle dimostrazioni nel 1955 contro il Patto di Baghdad e nel 1957 contro il licenziamento del governo Nabulsi. Dei transgiordani parteciparono attivamente a questi due grossi scontri tra l'opposizione e il Palazzo. In effetti, l'episodio del 1957 fu provocato essenzialmente da un colpo di stato tentato esclusivamente da ufficiali dell'esercito transgiordani. A causa dell'importanza della parentela nel giudicare le persone e gli eventi, il transgiordano che sfidava [il regime] era visto dall'élite di governo come qualcuno che era stato sviato dal cattivo ragazzo. Prima o poi sarebbe tornato nei ranghi. Questi pregiudizi foggiarono il comportamento dell'amministrazione nei confronti dei membri dell'opposizione politica. Era sempre più facile per un transgiordano ottenere il perdono che per un suo compagno della West Bank"[9].

La nascita nel 1964 dell'OLP, e soprattutto la rinascita del nazionalismo palestinese, incarnata nelle organizzazioni della resistenza armata palestinese, prima tra tutte Fatah, costituì la sfida maggiore all'esistenza e alla legittimità del regime giordano, sia a livello ideologico che concreto. Ideologicamente, il nazionalismo particolare palestinese negava inevitabilmente la base pan-araba su cui si giustificava la presenza hashemita nella West Bank, e costituiva un richiamo alternativo per la fedeltà della metà della popolazione, mettendo così potenzialmente in discussione anche la presenza hashemita sulla West Bank. Concretamente, nel periodo 1967-1971 le organizzazioni palestinesi giunsero a creare uno stato nello stato in Giordania, e solo intervenendo con forza con l'esercito Hussein riuscì ad evitare la presa del potere da parte delle organizzazioni palestinesi e il rovesciamento del proprio regime. Lo scontro tra lo stato e le organizzazioni nel 1970-71, se segnò da un lato il più pericoloso assalto al regime giordano, costituì però anche uno spartiacque nella storia giordana, dopo il quale l'esistenza dell'entità giordana non fu più seriamente messa in discussione, dando l'avvio ad un periodo di stabilità mai sperimentata prima dalla Giordania[10].

Al di là, dunque, della componente più semplicemente numerica, la qualità stessa di una possibile minaccia palestinese al regime sembrò mutare negli anni Settanta e Ottanta.

All'interno della comunità palestinese esistevano, ed esistono, differenze profonde dovute sia al momento dell'arrivo in Giordania, sia alla condizione socio-economica, sia alla residenza o meno nei campi profughi.

Diversi furono i palestinesi che giunsero in Giordania prima del 1948, divenendo una parte importante della società e dell'élite transgiordana, venendo considerati, e considerandosi, come transgiordani. Un esempio, tra i molti, è quello dell'importante famiglia Rifai, da cui provennero tre primi ministri giordani, le cui origini sono siriane prima e poi palestinesi, ma che è comunemente considerata come una famiglia transgiordana. Dunque "la linea basilare per [stabilire] chi è un palestinese è il 1948. Quelli che vennero in Giordania dopo il 1948 sono considerati giordano-palestinesi, non quelli che giunsero prima del 1948"[11]; Arthur Day commenta che "questa non fu una decisione arbitraria dei giordani. Essa rifletteva accuratamente le circostanze totalmente differenti nelle quali questi palestinesi erano arrivati. Rifletteva pure lo stato d'animo che portarono con loro. Che fossero scappati verso la West Bank e la Giordania per sfuggire ai combattimenti o per evitare di vivere sotto il governo israeliano, o che fossero stati scacciati dagli israeliani, tutti erano partiti contro la loro volontà. Giunsero esacerbati dalla loro perdita e determinati a tornare indietro prima o poi"[12].

Anche all'interno della componente palestinese giunta in Giordania a seguito del 1948 esistono però differenze profonde. I palestinesi giunti nel 1948 sono stati esposti ad una lunga socializzazione all'interno della struttura giordana, i loro figli hanno studiato nelle scuole giordane, non sono infrequenti i matrimoni misti, hanno goduto generalmente di un buon successo economico nel commercio e nelle professioni, entrando anche a far parte della burocrazia. Questi palestinesi, pur continuando ad identificarsi come tali e professare il loro diritto al ritorno, hanno ormai una serie di interessi e di investimenti in Giordania e, molto probabilmente, non sarebbero disposti a lasciarli per un incerto futuro nella West Bank, che, inoltre, per la maggior parte dei rifugiati del 1948 non costituisce il luogo di origine. Un altro gruppo identificabile è quello dei rifugiati giunti nel 1967 che non risiedono nei campi. Essendo stati esposti per un tempo minore alla socializzazione in Giordania e avendo generalmente avuto un minore successo economico rispetto ai palestinesi del 1948, il loro attaccamento alla Giordania è inferiore a quello dei rifugiati del 1948, ma sicuramente esiste. E' poi da considerare come per questi palestinesi, oggi, esista concretamente una maggiore speranza rispetto a chi è giunto nel 1948 di tornare al proprio luogo di origine in Palestina, anche se dal punto di vista materiale, questa potrebbe rivelarsi una scelta assai difficile.

Laurie Brand, seguendo un criterio non cronologico, ma socio-economico, giunge a definire due gruppi palestinesi, che possono comunque, con un certo grado di approssimazione, esser fatti coincidere con i gruppi cronologici.

Un primo gruppo è quello costituito dal ceto medio palestinese dei piccoli mercanti e degli impiegati governativi di grado inferiore (identificabile con i palestinesi giunti nel 1967 e una parte di quelli giunti nel 1948) tra cui "il senso di un'identità palestinese è forte, ma avendo raggiunto come gruppo una certa integrazione e successo economico, l'ostilità ad un'identità giordana non è stata [molto] pronunciata, eccetto tra chi ha svolto un qualche ruolo nella resistenza palestinese. Negli ultimi anni questo gruppo è giunto a sentire come più facile l'esprimere una qualche forma di attaccamento alla Giordania (se non l'identificarsi come giordani), o almeno l'esprimere fedeltà al re"[13]. Un secondo gruppo invece è quello dei palestinesi che hanno raggiunto un considerevole successo nel commercio, venendo cooptati nell'élite mercantile giordana, o che, più raramente, sono arrivati ai livelli più alti della burocrazia (identificabili con la parte più fortunata dei palestinesi del 1948). Secondo Laurie Brand "in seguito ai combattimenti del 1970-71, questa borghesia palestinese sembra aver accettato una quiescenza politica in cambio della garanzia del regime di un'atmosfera stabile che permetta di prosperare. In realtà, questo gruppo, al fianco dell'esercito e delle forze di sicurezza il cui personale è in gran parte transgiordano, è divenuto un pilastro del sostegno al regime, particolarmente mentre il paese coglieva i frutti del boom petrolifero nel Golfo. Molti dei suoi membri sono esponenti di famiglie della West Bank che si schierarono con Abdallah al momento dell'annessione. Questi sono palestinesi che tendono a non vedere alcun dilemma o contraddizione nell'identificarsi sia come palestinesi che come giordani"[14].

I palestinesi, invece, che risiedono nei campi, o che da poco li hanno abbandonati, sono il gruppo il cui senso di un'identità palestinese, che in larga parte si definisce anche in opposizione ad un'identità giordana, è più forte. Il campo profughi, caratterizzandosi come una realtà separata e per definizione transitoria, dove gli abitanti provenienti dallo stesso villaggio o città palestinese vivono fianco a fianco, in una continua riproposizione delle proprie tragedie personali e collettive, determina sicuramente un'identità più forte, e perpetua, in parte volutamente, un sentimento di alterità e di transitorietà.  Se si aggiunge che questa è anche la componente palestinese tra cui il disagio economico è più forte e diffuso[15], si comprende come essa sia quella potenzialmente più militante, e quella dove l'OLP e, oggi soprattutto, le forze islamiche abbiano maggior seguito.

Un ultimo gruppo di palestinesi è costituito da quei palestinesi ritornati in Giordania dal Golfo, ed in particolar modo dal Kuwait, a seguito della guerra del Golfo. "Questi palestinesi" scrive Laurie Brand "vedevano ampiamente i propri passaporti giordani come un utilità, e non come una base di identità o di appartenenza [.] essi posseggono un forte senso di [un'identità] palestinese, ma con elementi addizionali di un'identità separata (non ultimo l'odio per Saddam Hussein) che li differenziano dagli altri cittadini palestinesi del regno"[16].

Negli anni Settanta e Ottanta, dunque, diverse componenti della comunità palestinese in Giordania se non abbracciarono, così come non lo fece una vasta parte della comunità transgiordana, un'identità giordana ibrida, cessarono però di costituire una sfida e una minaccia reale per la stabilità del regime. Da un lato la prosperità economica, le possibilità educative offerte e la possibilità di emigrare verso i paesi del Golfo in cerca di un impiego remunerativo, che coinvolse soprattutto la componente, palestinese e con un alto livello di istruzione, potenzialmente più radicale, fornirono ai palestinesi un interesse diretto nella stabilità del regime che acquisì ai loro occhi una "legittimità dei fatti"; dall'altro, con l'espulsione delle organizzazioni dalla Giordania e la stretta continua di un apparato di sicurezza non meno efficiente perché meno esplicito di altri nella regione nel trattare con gli oppositori, anche le componenti della popolazione più restie ad accettare la legittimità del regime dovettero comprendere che il rapporto di forze era inevitabilmente in favore del regime. Infine il processo di "ritorno della geografia" nel mondo arabo, con l'abbandono dell'ideologia ed il ritorno della ragion di stato, contribuì a legittimare l'esistenza dell'entità giordana, non mettendo più in discussione il suo diritto ad esistere come stato indipendente e ponendo fine alle attività di destabilizzazione da parte dei paesi vicini, o riducendole massicciamente. 

La componente palestinese non costituiva dunque negli anni Settanta e Ottanta una reale minaccia all'esistenza del regime[17], ciononostante proprio in relazione con questa minaccia potenziale si sviluppò negli anni Settanta e Ottanta il nazionalismo transgiordano, rinato alla fine degli anni Sessanta.

Nazionalismo transgiordano e politica di depalestinizzazione.[18]

Il nazionalismo transgiordano aveva già avuto espressione tra la fine degli Venti e l'inizio degli anni Trenta nei Congressi Transgiordani che avevano innalzato lo slogan "la Transgiordania per i Transgiordani" in opposizione alla politica di Abdallah che riservava le cariche di maggiore importanza agli esponenti dell'élite "straniera" di origine siriana, palestinese e hijazi, politica che era legata tanto all'ideale panarabista sotteso ai piani pansiriani di Abdallah quanto all'estraneità della stessa dinastia hashemita dalla base transgiordana. Abu Odeh scrive che "sin dal principio della Giordania come nazione-stato, il governo è stato il principale datore di lavoro della nazione. L'impiego nell'amministrazione in Giordania rappresenta un terreno per la competizione, meno tra le qualifiche che tra le famiglie, i clan, le tribù e pure le nazionalità. Così stavano le cose negli anni Venti e Trenta - come rifletteva il discorso politico transgiordano - e così stanno le cose oggi al volgere del secolo"[19].

Con l'annessione della West Bank e l'afflusso della popolazione palestinese la componente transgiordana, che non tardò a guardare con diffidenza i nuovi compatrioti, si strinse intorno alla monarchia, che costituiva, oltre all'arbitro ultimo dei rapporti tra le due componenti, anche la garanzia contro una possibile "palestinizzazione" della Giordania.

La perdita della West Bank nel 1967, e il successivo arrivo di duecentocinquantamila nuovi rifugiati palestinesi nell'East Bank, mise però in moto due movimenti che portarono alla rinascita del nazionalismo, o dell'esclusivismo, transgiordano. Da una parte essa diede forza alle organizzazioni della resistenza palestinese sulla riva orientale, dall'altra davanti alla paura suscitata dalla minaccia di una presa del potere da parte delle organizzazioni palestinesi e dalle teorie israeliane secondo le quali la Giordania era la Palestina, una vasta parte dell'élite giordana iniziò a nutrire dei dubbi riguardo l'interesse della Giordania a rimanere implicata nella questione palestinese e a recuperare la West Bank. La perdita della West Bank nel 1967, scrive Abu Odeh, "fu percepita più tardi dai transgiordani come la perdita da parte dei giordano-palestinesi della loro porzione nella compagnia (l'unità West Bank - East Bank) piuttosto che come la perdita di una parte del regno. Questa percezione fu rinforzata dall'insistenza dell'OLP nel rappresentare la West Bank"[20].

Gli scontri di Settembre Nero esacerbarono le divisioni tra palestinesi e transgiordani e fornirono l'occasione per avviare un processo di depalestinizzazione nell'amministrazione. Secondo Abu Odeh "molti dei nazionalisti transgiordani che credevano che i giordano-palestinesi costituissero una minaccia basilare per l'identità stessa dei transgiordani furono rincuorati dai risultati dell'esercito nel 1970-71. Considerarono questo successo la fase uno; la fase due sarebbe consistita nell'escludere i palestinesi in generale, e non solo i fedayin dal settore pubblico giordano e dalla vita politica"[21]; si affermò allora una corrente di opinione nell'élite transgiordana, ai massimi livelli, identificata come East Bank First School, il cui principale rappresentante e simbolo fu Mudar Badran. Ex-direttore dei mukhabarat, Badran divenne nel 1974, non a caso dopo la decisione di Rabat, capo della corte reale, e nel 1976 sostituì Zeid Rifai alla testa del governo, rimanendo primo ministro, con una breve interruzione di otto mesi tra il 1979 e il 1980, fino al 1984, un periodo straordinariamente lungo di tempo durante il quale il processo di depalestinizzazione fu portato a termine per la maggior parte[22]. Anche il principe Hasan e Sharyf Zeid bin Shaker erano considerati vicini a questa scuola di pensiero.

Nelle parole di Abu Odeh "una nuova forza politica transgiordana con un profilo basso che non vedeva le cose con gli stessi occhi del re iniziò ad emergere. Questa forza consisteva di transgiordani della classe media, inclusi funzionari superiori, ex-membri del Movimento Nazionale Giordano, professionisti, parenti ed amici di Wasfi Tall, e alcuni membri della famiglia reale[23], che credevano che la politica palestinese del re dovesse essere cambiata. Credevano che sarebbe stato nel migliore interesse della Giordania se il re avesse smesso di cercare di rappresentare la West Bank, lasciandola all'OLP. La West Bank, sostenevano, era stata una fonte di problemi per la Giordania anche prima della sua occupazione da parte di Israele nel 1967.  Dopo l'occupazione i problemi causati dai palestinesi erano aumentati. I palestinesi non solo avevano ucciso Wasfi Tall, ma avevano pure minacciato l'esistenza stessa della Giordania [.] Comprensibilmente, non si confrontavano con il re in pubblico, ma facevano sentire le loro convinzioni attraverso i funzionari più autorevoli e gli esponenti dell'intelligence che erano presenti tra di loro e che avevano accesso al Palazzo. In pubblico, scelsero principalmente di sostenere il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione, che implicava la finale separazione della Giordania dalla West Bank[24]. Il fatto che il re avesse contato essenzialmente sull'appoggio transgiordano nel respingere i fedayin durante la resa dei conti di Settembre Nero diede a questo gruppo il coraggio di esprimere un atteggiamento che andava contro quello del re [.] sentivano che dovevano avere realmente voce in capitolo nelle questioni [riguardanti le relazioni con la Palestina e i palestinesi], perché tutte le questioni riguardanti la Palestina avevano necessariamente un effetto sulla Transgiordania e sul suo popolo. La Giordania non era solo il regno di re Hussein, ma anche la loro patria"[25]. In questo senso, allora, appare chiaramente il valore politico della rivendicazione transgiordana, riportata da Valerie Yorke, secondo la quale la monarchia avrebbe volutamente perpetuato una falsa impressione di una presenza maggioritaria palestinese in Giordania, per legittimare esternamente e giustificare internamente il suo continuo coinvolgimento nella West Bank e nella questione palestinese: "la controversia [riguardo l'esistenza o meno di una maggioranza palestinese nella East Bank] riflette le profonde diffidenze nei circoli transgiordani riguardo il modo in cui la questione palestinese è stata usata dagli hashemiti per portare avanti le loro ambizioni, per estrarre i finanziamenti esterni per lubrificare il sistema di cooptazione da cui dipendevano e per giustificare il governo assoluto di re Hussein"[26]

A questa posizione nell'élite corrispondeva una percezione simile nella base transgiordana. L'esercito aveva sempre giocato all'interno della comunità transgiordana un importantissimo ruolo, non solo di garanzia economica, ma anche a livello simbolico, diventando uno dei principali simboli dell'identità transgiordana. La vittoria dell'esercito sulle organizzazioni, non era dunque per la base transgiordana solo una vittoria dello stato sulle organizzazioni, ma anche una loro vittoria sui palestinesi. "In quanto vincitori, molti transgiordani sentivano di aver titolo alla loro parte del premio. Dal loro punto di vista, il re, preservando il proprio trono, aveva già ricevuto la sua parte; in gioco era la loro parte. A livello individuale , la ricompensa cui aspiravano era semplice: un favore pronto e personale dal re o dal suo governo, come un lavoro, una promozione, cure mediche gratuite all'estero, o un premio governativo di qualunque tipo. Volevano pure essere favoriti in modo permanente rispetto i palestinesi [.] il re era conscio di questi sentimenti. Fu sensibile alle richieste generali ed individuali non solo perché il premio era disponibile, specialmente negli impieghi pubblici, ma anche perché voleva consolidare la sua base di potere"[27].  Nel periodo successivo a Settembre Nero, quindi, in risposta sia a una pressione dal basso, sia a una tendenza dall'alto, emerse una politica di trattamento privilegiato della componente transgiordana. Come scrive Laurie Brand, "[che fosse] per placare i transgiordani, punire i palestinesi o per migliorare la sicurezza, o per una qualche combinazione delle tre cose, il governo iniziò ad attuare una politica di assunzione privilegiata dei transgiordani  nella burocrazia. Questo, naturalmente, in aggiunta al fatto che i livelli più alti dell'esercito, se non i più bassi, da lungo tempo erano stati ampiamente un dominio riservato transgiordano"[28].

La decisione di Rabat del 1974, con cui gli stati arabi negarono alla Giordania il diritto di rappresentare i palestinesi e la West Bank e fecero dell'OLP il solo e legittimo rappresentante del popolo palestinese, fu un altro elemento che rafforzò questa tendenza. Gli esponenti della East Bank First School ritenevano che fosse nell'interesse della Giordania aderire alla lettera alla decisione araba, disimpegnandosi totalmente dalla West Bank e concentrandosi sullo sviluppo economico della East Bank, lasciando che fosse l'OLP a impegnarsi per ottenere un ritiro israeliano dai territori occupati.

Abu Odeh rileva come, sottolineando continuamente il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e lo status dell'OLP come solo e legittimo rappresentante del popolo palestinese, "la posizione di questi nazionalisti transgiordani inavvertitamente [fosse] in armonia con la posizione dell'OLP, di modo che essi divennero alleati silenziosi dell'OLP "contro" il regime: ora l'OLP accusava il regime di non essersi sinceramente impegnato nella decisione di Rabat e i nazionalisti transgiordani volevano che la Giordania togliesse le mani [dalla West Bank] esattamente allo stesso modo in cui lo voleva l'OLP"[29]; "per la prima volta" sottolinea ancora Abu Odeh "Fatah (l'OLP), in quanto sostenitore di un nazionalismo palestinese indipendente, trovò una parte transgiordana che concordava con la sua ideologia basilare. Fatah, che aveva perso la East Bank come base di partenza per la sua guerra di guerriglia contro Israele, aveva però guadagnato un forte nucleo di attivisti transgiordani che credevano in un nazionalismo palestinese indipendente, dato che questo implicava a sua volta un nazionalismo transgiordano indipendente"[30].

La decisione di Rabat, che segnava anche a livello arabo il riconoscimento di una divisione tra palestinesi e giordani, approfondì la divisione interna e rafforzò gli esponenti della East Bank First School. Il tema dell'"appartenenza" (intima'), cioè della lealtà ultima e unica alla Giordania, e la divisione "muhajirin-ansar"[31], evocata per primo dallo stesso Hussein per sottolineare in una cornice islamica la necessità dell'unità nazionale, ma presto interpretata dai transgiordani come sinonimo di ospiti e ospitati, divennero temi comuni del discorso politico giordano.

Alla decisione di Rabat, ricorda Arthur Day, "seguì un periodo in cui ci fu un gran parlare di giordanizzare la Giordania, di mettere in ordine la propria casa nella East Bank, di Giordania per i giordani, e così via. Venne proposto di porre fine all'identità duale dei palestinesi, di obbligarli a scegliere - la Giordania, amala o lasciala"[32]. La nomina di Mudar Badran a primo ministro nel 1976 segnò la vittoria nella politica interna di questo punto di vista, anche se la politica estera rimase il dominio riservato del sovrano che mantenne la tradizionale politica giordana di coinvolgimento nella questione palestinese, e i governi Badran, anzi, si segnalarono per la loro scarsa influenza sulla politica estera, soprattutto se confrontati, ad esempio, con la gestione Rifai che li precedette e li seguì[33].

Un terzo momento importante in questo processo fu, nel 1988, la scissione dei legami amministrativi e legali tra le due rive. Questa decisione, applicando dopo quattordici anni le risoluzioni di Rabat, pose fine ufficialmente, anche se non costituzionalmente, alla presenza giordana nella West Bank. Tra i giordano-palestinesi si diffuse una notevole preoccupazione riguardo il loro status di cittadini giordani, che veniva paragonato da molti transgiordani a quello degli abitanti della West Bank, che a seguito del disimpegno giordano avevano perso la nazionalità, come testimoniava la riduzione dello status del loro passaporto a semplice documento di viaggio, da rinnovarsi ogni due anni (e non ogni cinque). Anche se Hussein non mancò di ribadire che la Giordania era per tutti i giordani, senza alcuna distinzione dovuta alla provenienza, per "i nazionalisti transgiordani la decisione della scissione dei legami amministrativi e legali con la West Bank fu equivalente allo smantellamento di una compagnia o alla divisione di un lascito tra gli eredi. Ogni socio o erede doveva ricevere la sua equa porzione. La East Bank era la parte dei transgiordani quanto la West Bank era la parte dei palestinesi, inclusi quelli che si erano stabiliti nella East Bank dal 1948. Dopo tutto era stato il socio palestinese a scegliere di liquidare la compagnia. Secondo questo ragionamento, qualunque lamentela giordano-palestinese riguardo le pratiche discriminatorie era scartata come ingiustificata dopo la divisione dell'eredità"[34].

L'acquiescenza palestinese in questo processo di depalestinizzazione deriva da diverse componenti, interrelate tra loro. In primo luogo, nell'interpretazione di Abu Odeh, svolse un ruolo importante il senso di colpa collettivo palestinese causato da Settembre Nero. "Quello che accadde fu che dopo il 1970/71 da parte loro i palestinesi sentirono un senso di colpa per non avere impedito che l'OLP si sviluppasse come si era sviluppato contro gli interessi dello stato, e se ne vergognarono"[35]; questo senso di colpa fece sì che quando il processo di epurazione dei sostenitori delle organizzazioni dal settore pubblico e dall'apparato di sicurezza "più tardi evolse in un processo di depalestinizzazione non vi fu alcuna seria protesta collettiva palestinese"[36].

"Per il governo" continua Abu Odeh "i palestinesi erano diventati sospetti permanenti, e i palestinesi sentivano di essere sospetti. Come sospetti preferivano evitare di essere coinvolti nella politica, perché qualunque coinvolgimento in essa li avrebbe segnalati all'attenzione dell'apparato di sicurezza, cosa che volevano evitare. Fu un meccanismo di difesa"[37].

La chiusura del settore pubblico ai palestinesi, o almeno il trattamento sfavorevole che vi ricevevano, fu però compensata, almeno economicamente, dalle possibilità offerte nel settore privato e nel Golfo dal periodo di prosperità economica vissuto dalla Giordania e questo, riducendo l'impatto materiale che la depalestinizzazione ebbe sulla comunità palestinese, contribuì sicuramente in maniera determinante all'acquiescenza palestinese. Il settore privato era stato tradizionalmente dominato dalla comunità palestinese che quindi fece fortuna negli anni Settanta e Ottanta, durante il periodo di espansione economica alimentato dal capitale che proveniva dai palestinesi che lavoravano nel Golfo e dagli aiuti dei paesi petroliferi.

I palestinesi, considerando rischioso un impegno politico che avrebbe potuto rimettere in discussione agli occhi dell'apparato di sicurezza la loro lealtà, di per sé considerata dubbia, e avendo la possibilità di migliorare decisamente il proprio tenore di vita attraverso le prospettive economiche che si aprivano, si allontanarono dalla politica, per concentrarsi nella conduzione dei propri affari. Pur continuando a trovare nell'OLP un'espressione della propria identità palestinese, questo loro attaccamento "non aveva più nulla [di pericoloso] in termini pratici, era principalmente [un sostegno] vocale. Ma contribuì ad alimentare l'impressione che fossero sleali"[38]; in termini pratici i palestinesi non desideravano mettere a rischio le possibilità economiche che erano offerte loro impegnandosi nell'attività politica; in questo modo il regime e la comunità transgiordana godettero di un'ampia autonomia nel portare avanti le proprie politiche.

A questa situazione favorevole per il settore privato, fece eco l'espansione notevolissima del settore pubblico, anch'essa alimentata dal boom petrolifero,  che caratterizzò quegli anni e che coinvolse principalmente la componente transgiordana. In questo modo "si inasprì una divisione tra il settore pubblico e il settore privato che seguiva strettamente le linee [di divisione] intercomunitarie"[39].

L'inasprimento di questa divisione comunitaria, o "deformazione nazionale" come la chiama Abu Odeh, dell'economia nazionale, che era sempre esistita e che deve molto anche ai valori sociali dominanti nelle due comunità, divenne una fonte di malcontento alla fine degli anni Ottanta per entrambe  le componenti della società giordana.

I transgiordani, da parte loro, giunsero a risentire il dominio del settore privato da parte dei palestinesi, denunciando come l'economia nazionale fosse in mani "straniere" e quindi potenzialmente fuori controllo. La recessione che incominciò negli anni Ottanta e la crisi economica che la seguì portarono il governo ad intraprendere misure di austerità che colpirono prevalentemente la componente transgiordana che dipendeva dal pubblico impiego e dai sussidi ai beni di consumo garantiti dal governo e che cominciò a guardare con invidia agli stipendi offerti nel settore privato decisamente più alti di quelli percepiti nel pubblico impiego. "Data la divisione tra un settore privato palestinese e un settore pubblico transgiordano, e considerando il fatto che gli obiettivi della liberalizzazione economica [erano], tra le altre cose, una riduzione del settore statale e l'incoraggiamento del settore privato, non è sorprendente che i transgiordani si siano sentiti minacciati da una ristrutturazione economica di cui i palestinesi sembravano destinati a beneficiare. [.] La ricaduta economica e demografica della Guerra del Golfo del 1991 non tardò [poi] a intensificare il trend di divisione. L'inflazione influì negativamente su tutti, ma ebbe un effetto particolarmente pesante sulle retribuzioni fisse del settore statale ampiamente transgiordano. L'influsso di duecentomila giordani (in maggioranza palestinesi) [provenienti] per la maggior parte dal Kuwait inasprì quello che era già un serio problema di disoccupazione, mise a dura prova i  servizi statali, e innalzò i prezzi degli alimentari e degli alloggi. Questi sviluppi rafforzarono l'impressione tra molti transgiordani di una graduale perdita di controllo del proprio paese di fronte ad ondate successive di "estranei" che erano visti come i detentori della ricchezza nazionale e quindi pronti ad acquisire un potere sempre maggiore"[40]. In particolare il malcontento, espresso anche nei moti del 1989 che seguirono l'aumento del costo della benzina, si diffuse tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta nel sud del paese, tra la popolazione transgiordana e beduina, lungamente ritenuta come il pilastro del regime, ma che aveva subito nel corso degli anni precedenti una marcata marginalizzazione economica e sociale a vantaggio delle città, che avevano attirato la parte più consistente degli investimenti statali.

Dall'altro lato anche i palestinesi risentivano la divisione comunitaria pubblico/privato come ingiusta e discriminante. In particolare i palestinesi risentivano il trattamento di sfavore con cui erano trattati dalla burocrazia transgiordana e che spesso costringeva gli imprenditori palestinesi a ricorrere ai servigi di intermediari transgiordani e il controllo transgiordano dell'apparato di sicurezza. Abu Odeh sottolinea come "il controllo transgiordano dell'apparato di sicurezza ha avuto un impatto più sfavorevole sull'unità nazionale che il dominio transgiordano sull'amministrazione pubblica. Lo stato - qualunque stato - detiene il monopolio della violenza. Ma quando un apparato di sicurezza è controllato da un gruppo in una società in cui l'appartenenza tribale supera il dominio della legge, allora la neutralità della repressione, un fattore essenziale per l'armonia intercomunitaria, sparisce. [.] Come risultato, è cresciuto un senso di vittimismo tra i giordano-palestinesi negli ultimi due decenni"[41]; si è affermata, cioè, una marcata sensazione tra i palestinesi di essere cittadini di seconda classe, il cui titolo di cittadinanza può essere  sempre rimesso in discussione.

Anche se dunque con il passare degli anni il contenuto reale della divisione tra palestinesi e transgiordani è andato inevitabilmente svuotandosi[42], essa rimane oggi, così come negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, una divisione dal grande significato simbolico e politico attorno alla quale si gioca una delle poste politiche di maggiore importanza nel panorama giordano, come testimonia, l'esistenza prima, e l'assoluta segretezza poi, delle cifre riguardanti le proporzioni dei due gruppi. Questa divisione nata con l'annessione stessa della Palestina Centrale alla Giordania, espressasi negli anni Cinquanta e Sessanta nell'opposizione radicale e nasseriana alla monarchia hashemita, rafforzata dalla nascita dell'OLP e dalla rinascita del nazionalismo palestinese, si espresse in tutta la sua forza nel confronto tra il regime giordano e l'OLP culminato nel teatro interno negli scontri armati di Settembre Nero, e a livello esterno nella competizione per il diritto di rappresentare i palestinesi della West Bank culminata nella decisione di Rabat del 1974. A seguito di questi due avvenimenti si affermò, quindi, il processo di depalestinizzazione del settore pubblico che la ha perpetuata e ne ha fatto un elemento centrale della dinamica interna giordana.

A quali ragioni rispondeva questo processo di depalestinizzazione? I nazionalisti transgiordani lo giustificavano essenzialmente con motivi di sicurezza nei confronti di due minacce potenziali una proveniente dalla comunità palestinese, ritenuta fondamentalmente non leale al regime, l'altra proveniente da Israele e dai piani di una "patria alternativa" palestinese sostenuti da Sharon. In parte le apprensioni riguardanti la sicurezza del regime erano giustificate, almeno nei momenti immediatamente successivi a Settembre Nero, e il mantenimento di un apparato di sicurezza e di un esercito leali ed efficienti costituivano un imperativo primario per la sicurezza del regime giordano. La maggioranza della popolazione palestinese non costituiva più però, come si è visto, una minaccia reale alla sopravvivenza del regime giordano. La politica di depalestinizzazione divenne allora l'espressione di una lotta per il potere, che in un sistema politico clientelare come quello giordano significa lotta per il controllo delle risorse da ridistribuire per alimentare il sostegno al regime e all'élite. "Quella dell'East Bank First School non fu una lotta su una posizione politica, ma sul controllo del governo giordano, e dunque del bilancio giordano, cioè del principale meccanismo di distribuzione della ricchezza. Fu una lotta per il potere, per il monopolio sull'amministrazione [.] gli anni Settanta e Ottanta furono un periodo di dilagante corruzione, l'età dell'oro dell'amministrazione"[43]. Fu un riaffermarsi del contratto sociale originale sorto tra Abdallah e la componente transgiordana, in cui la legittimità del regime era una "legittimità dei fatti", una legittimità che passava attraverso la garanzia degli interessi economici dei diversi segmenti sociali.

Più che una politica esplicita, dunque, la depalestinizzazione è stata probabilmente "un orientamento che ha prodotto un atteggiamento"[44], in cui la determinazione della componente transgiordana a riappropriarsi del "proprio" stato, vittoriosamente difeso durante Settembre Nero, la disponibilità da parte del regime delle risorse con cui pacificare sia la componente transgiordana sia quella palestinese attraverso canali diversi (il settore pubblico e quello privato), la necessità di Hussein, "chiuso nella gabbia beduina"[45], di rafforzare la base del proprio sostegno e l'acquiescenza della componente palestinese, timorosa di perdere i vantaggi economici che si aprivano con il boom petrolifero, si incontrarono in un rapporto sinergico. In questo modo, però, la divisione tra le due componenti del regno hashemita si è perpetuata negli anni Novanta, rendendo più ardua la creazione di un'identità ibrida (e in qualche modo "hashemita") che le riassumesse, in un contesto reso più difficile dalla crisi economica e dalle sfide della liberalizzazione politica e della pace con Israele.



[1] Vd. Roberto Storaci, La Conferenza di Rabat del 1974 in InfoMedi, Informazioni On Line dal Mediterraneo, n°5-6, novembre-dicembre 2000 e Roberto Storaci La finestra di opportunità. La diplomazia giordana e il processo di pace, 1984-86 in InfoMedi, Informazioni On Line dal Mediterraneo, n°1, gennaio 2001. Questo articolo, come i due precedenti sopra citati, è tratto da un più vasto lavoro sulla politica giordana e la questione palestinese condotto, anche attraverso due soggiorni sul campo in Giordania, tra il 1999 e il 2000.

[2] Questa è senza dubbio una semplificazione. La "componente trangiordana" si è infatti costituita, in buona misura anche in relazione all'arrivo palestinese, su di un mosaico di divisioni tribali, tra hadari e beduini, minoranze religiose (cristiani) ed etniche (circasi,ceceni), ed ha compreso anche tutti quei numerosi immigrati, siriani, palestinesi, hijazi, giunti in Transgiordania negli anni del mandato.

[3] Peter Gubser, Jordan: Crossroads of Middle Eastern Events, Londra 1983.

[4] Adnan Abu Odeh, Jordanians, Palestinians and the Hashemite Kingdom in the Middle East Peace Process, Washington 1999.

[5] La traduzione è alquanto carente.  I profughi del 1967 non sono considerati rifugiati in quanto si sono spostati all'interno dello stesso paese dalla riva occidentale a quella orientale. Vengono dunque distinti i refugees del 1948 e i displaced (o deplacés in francese) del 1967.

[6] Françoise de Bel-Air, La Gestion Politique, Economique et Sociale des Phénomènes Démographiques en Jordanie paper inedito (intervento al convegno internazionale Politique et Etat en Jordanie, 1946-1996, Institut du Monde Arabe, Parigi, 24-25 giugno 1997).

[7] Valerie Yorke, Domestic Politics and Regional Security: Jordan, Syria and Israel, Aldershot 1988.

[8] Arthur R. Day, East Bank/West Bank. Jordan and the Prospects for Peace, New York 1986.

[9] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[10] Per una ricostruzione e una valutazione degli avvenimenti di Settembre Nero vd. Roberto Storaci, Lo stato giordano contro le organizzazioni palestinesi: Settembre Nero in Quaderni Asiatici, n° 55, marzo 2001.

[11] Adnan Abu Odeh , intervista personale.

[12] Arthur R. Day, 1986, op. cit..

[13] Laurie A. Brand, Palestinians and Jordanians: a Crisis of Identity in Journal of Palestine Studies vol. XXIV/4, n° 96, estate 1995.

[14] Laurie A. Brand, ibid..

[15] Anche se è invidiata da parte della componente rurale e beduina transgiordana del sud del paese che sperimenta anch'essa una marginalizzazione economica, senza godere però dell'assistenza garantita dall'UNRWA.

[16] Laurie A. Brand, 1995, op. cit..

[17] Come tutte le persone interpellate, da Zeid Rifai a Taher al Masri, da Adnan Abu Odeh a Ibrahim Eizzedin, hanno riconosciuto. Interviste personali.

[18] Il problema dei rapporti tra la componente palestinese e quella giordana negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, e della rinascita del nazionalismo transgiordano, espresso dall'East Bank First School, è generalmente trattato solo di sfuggita. A nostra conoscenza la trattazione più compiuta di questa tematica è Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit., cui facciamo particolare riferimento. Un'altra interessante descrizione è Laurie A. Brand, 1995, op. cit..  Siamo inoltre debitori delle conversazioni avute dall'autore con Adnan Abu Odeh.

[19] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[20] Adnan Abu Odeh, 1999, ibid..

[21] Adnan Abu Odeh, 1999, ibid..

[22] Adnan Abu Odeh, intervista personale.

[23] Il principe Hasan e Sharyf Zeid bin Shaker.

[24] Il riferimento al principe Hasan, e in particolare alla sua opera Hasan b. Talal, Palestinian Self-Determination. A Study of the West Bank and the Gaza Strip, Londra 1981, è velato, ma evidente.

[25] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[26] Valerie Yorke, 1988, op. cit..

[27] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[28] Laurie A. Brand, 1995, op. cit..

[29] Adnan Abu Odeh, intervista personale.

[30] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[31] Muhajirin (emigranti) e ansar (sostenitori) sono termini usati nella tradizione islamica  per indicare tra i primi musulmani che sostennero Muhammad a Medina quelli che lo avevano seguito dalla Mecca (muhajirin) e quelli che lo avevano accolto a Medina (ansar).

[32] Arthur R. Day, 1986, op. cit..

[33] Zeid Rifai, intervista personale.

[34] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[35] Adnan Abu Odeh, intervista personale.

[36] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[37] Adnan Abu Odeh, intervista personale.

[38] Adnan Abu Odeh, ibid..

[39] Laurie A. Brand, 1995, op. cit..

[40] Laurie A. Brand, ibid..

[41] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[42] Considerando che la differenza tra queste due componenti è solo storica, facendo parte di uno stesso gruppo etnico, linguistico e religioso, ci si può chiedere "cosa" sia un palestinese o un transgiordano oggi, soprattutto considerando le generazioni più giovani che sono andate incontro ad un medesimo processo di socializzazione, istruzione, e il cui legame con la Palestina, per quanto continuamente riproposto, diventa sempre più tenue.

[43] Ex-consigliere del principe Hasan, intervista personale.

[44] Adnan Abu Odeh, 1999, op. cit..

[45] La curiosa definizione è di un avvocato vicino all'OLP.


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Numero 12
maggio 2001











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