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( ANALISI )


Palestina: sviluppi economici recenti ed effetti della nuova intifadah

di Tiziana Giuliani


La situazione e l'andamento dell'economia nei Territori Autonomi Palestinesi (TAP) sono strettamente connessi al contesto politico e, quindi, agli sviluppi nel processo di pace.

L'evolversi della questione palestinese a partire dall'occupazione dei Territori all'indomani della guerra del '67, ha portato allo sviluppo di una stretta relazione di interconnessione e dipendenza dell'economia dei TAP nei confronti di quella israeliana. Questa relazione non si è però sviluppata sulla base di una complementarietà di risorse e di bisogni, ma si è venuta caratterizzando nel corso del tempo per una sostanziale asimmetria nelle relazioni commerciali ed economiche tra i due Paesi.

I prodotti dell'industria palestinese sono per lo più beni intermedi (semilavorati) destinati alle industrie israeliane[1] e prodotti finiti non reperibili sul mercato interno israeliano[2].

Circa i ¾ delle importazioni palestinesi provengono da Israele ed il 95% delle esportazioni è diretta verso Israele.

L'alta dipendenza dalle rimesse dei Palestinesi che lavorano in Israele od all'estero ha dato origine ad un mercato del lavoro altamente fluttuante ed un'economia fragile ed estremamente vulnerabile agli shock esterni. In particolare, a partire dal 1993, la politica delle closure imposta da Israele con frequenti chiusure dei Territori, in seguito a scontri, tensioni, od altri motivi interni, ha accentuato il carattere di dipendenza dei TAP da Israele.

Ma, la situazione strutturale dell'economia palestinese è stata anche il risultato di una politica economica che ha scarsamente considerato le prospettive a lungo termine. Nel 1994 a Parigi, i Palestinesi hanno firmato con gli Israeliani un Protocollo Economico che prevede la creazione di un'unione doganale tra Israele e Palestina. L'economia palestinese ha, però, delle caratteristiche assai differenti da quella israeliana - si consideri che si tratta di un Paese in via di sviluppo - e  le sue esigenze di progresso e di crescita sui mercati internazionali sono diverse dal suo vicino, il quale difficilmente rinuncerà a giocare un ruolo dominante. Appare, dunque, evidente che da una siffatta unione - che, per definizione, prevede anche l'uniformità e l'armonizzazione delle politiche commerciali verso l'esterno -  i TAP difficilmente trarrebbero dei vantaggi.

I TAP hanno scarse risorse naturali e l'accesso alle risorse idriche è stato negli anni fortemente limitato da restrizioni amministrative israeliane e da carenze strutturali. Inoltre, negli anni '80 e '90, la produzione agricola è stata fortemente limitata dalla perdita di terre a coltura occupate da nuovi e sempre più numerosi insediamenti israeliani, oltre che per il fenomeno di urbanizzazione della Valle del Giordano. Una ridotta produzione agricola ed una limitata espansione industriale, in larga misura attribuibili alle suddette situazioni, hanno dato vita ad un'economia sbilanciata in cui il settore terziario è preponderante. In particolare, secondo dati resi noti dal Centro Studi Palestinese MAS[3], nel 1999, il contributo dei vari settori alla formazione del Pil può essere così sintetizzato: agricoltura 6,9% (in crescita rispetto al 6,4% del 1997); industria 16,8% (in calo rispetto al 17,6% del 1997); comparto edile 10,6% (rispetto all' 8,9% del 1997); infine, servizi 65,7% (rispetto al 67,1% nel 1997).

Immediatamente dopo gli Accordi di Oslo, si è assistito ad un miglioramento dell'economia palestinese, subito seguito da un periodo di rapido deterioramento risultato nel peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. La politica delle closure, cui si è fatto cenno poc'anzi, con la conseguente creazione di checkpoint  (posti di controllo) ai confini tra TAP ed Israele, ha portato ad un rallentamento generale del movimento di beni e persone e ad una diminuzione nella percentuale di impiego di manodopera palestinese in Israele.

Gli impedimenti alla libera circolazione delle merci, come pure l'ancora incerto clima politico, hanno causato un calo negli investimenti privati del 75%. Al contrario, gli investimenti pubblici, per lo più finanziati attraverso gli aiuti internazionali, sono più che raddoppiati nel lasso di tempo compreso fra il 1994 ed il 1998. Detto sviluppo degli investimenti pubblici ha determinato una crescita del settore che, tuttavia, si è tradotta in un maggior numero di assunzioni piuttosto che in opere infrastrutturali. Questo anche per la necessità di costituire il fulcro del futuro Stato palestinese e risolvere le pressanti esigenze di generare dei redditi e migliorare la situazione complessiva della popolazione.

A partire dalla fine del 1997, l'andamento dell'economia palestinese ha evidenziato una tendenza di segno opposto. Per il 1999, la crescita del Pil è stata calcolata al 6% dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dal Ministero delle Finanze palestinese. Tenendo conto che la popolazione palestinese, secondo i dati riferiti dal rapporto dell'UNSCO[4], è cresciuta nell'anno di riferimento del 3,68%, se ne può dedurre che il Pil pro-capite sia aumentato nel 1999 dell'1,63% rispetto all'anno precedente. Questo dato, combinato ad una riduzione del tasso di inflazione, ha determinato una crescita del potere d'acquisto e quindi, una ripresa dei consumi e degli investimenti privati. L'Autorità Monetaria Palestinese ha pubblicato un rapporto[5] nel quale si evidenzia che le operazioni di credito sono aumentate del 20% nel 1999. Questo, nonostante il perdurare di numerosi ostacoli agli investimenti privati: alti costi di trasporto, limitato accesso a fattori di produzione a basso costo, chiusure dei Territori, restrizioni all'accesso ad altri mercati, frammentazione del mercato palestinese ed una cornice istituzionale e legislativa debole e frammentaria.

Il tasso di occupazione ha registrato una crescita positiva, effetto delle migliorate condizioni economiche nel 1998 e 1999. In particolare a Gaza, secondo dati riportati dalla Banca Mondiale[6], il tasso di crescita dell'occupazione ha evidenziato un aumento del 9,7%, mentre si è registrato un incremento del 4,6% nel numero dei lavoratori palestinesi in Israele. Questo, insieme ad altri fattori, ha indotto a pensare ad un incremento endogeno delle attività produttive. E' pur vero, tuttavia, che molti dei progetti che hanno determinato una crescita nella manodopera occupata sono frutto di un'iniezione di denaro e di capacità produttive esterne. Il parco industriale di Gaza, ad esempio, finanziato in larga misura da Banca Mondiale ed Unione Europea, ha un gran numero di imprese israeliane.

Progressi sono stati fatti in ambito legislativo. Nel 1998 sono state promulgate due leggi: la L.1 per la promozione degli Investimenti e la L.10 sulle aree industriali e zone franche.

In questo panorama di lenta ripresa dell'economia, dopo il declino degli anni 1993-97, l'impatto della nuova intifadah, con le sue conseguenze in termini di chiusura dei Territori, restrizioni alla circolazione di beni e persone, avrà effetti considerevoli sull'economia palestinese e sul tenore di vita della popolazione. Una valutazione quantitativa di tali effetti appare, ad oggi, difficile. Per i circa 125.000 lavoratori palestinesi in Israele l'avvento dell'intifadah si è tradotto nella perdita, totale o parziale, dei redditi da lavoro. I frequenti blocchi stradali tra città e villaggi, la chiusura del "safe passage" tra Gaza e Cisgiordania causano notevoli difficoltà di spostamento anche all'interno dei Territori, danneggiando così tutte le attività produttive, ivi compresa l'agricoltura. Ad essere colpiti da questo stato di cose sono i più poveri che spesso derivano il loro sostentamento dal solo lavoro nei campi. Si stima[7] che la popolazione sotto la soglia della povertà aumenterà dal 21,1% del Settembre 2000 al 43,8% se la situazione dovesse prolungarsi fino alla fine del 2001.

Le restrizioni alla libera circolazione hanno determinato una riduzione delle attività economiche che è stata stimata, dagli osservatori internazionali, intorno al 50%. Il settore dei servizi, in particolare commercio e turismo (che, lo ricordiamo, forniscono il contributo più cospicuo alla formazione del Pil) risultano i più colpiti. In generale, la situazione di instabilità ed incertezza politica ha scoraggiato qualsiasi investimento privato e ha depresso i consumi. La Banca Mondiale[8] ha stimato una caduta nei consumi dell'ordine del 10% e una contrazione negli investimenti del 15-20%.

Si è stimata anche una contrazione delle esportazioni dell'ordine del 5%, su cui hanno pesato la chiusura per lunghi periodi dell'aeroporto di Gaza e dei passaggi transfrontalieri di Rafah (Egitto) e Allenby/Karameh (Giordania), come pure il ritardo od il blocco delle merci palestinesi nei porti israeliani. Un'assenza prolungata delle esportazioni palestinesi sui già limitati mercati di sbocco, avrebbe un pericoloso effetto di sostituzione che penalizzerebbe anche in futuro quest'economia già disastrata.

Ma cosa ha significato, allora, la lenta ripresa dell'economia palestinese, antecedente lo scoppio della nuova intifadah?

Certamente, non ha avuto implicazioni di natura strutturale, né l'Autorità Palestinese ha effettuato delle manovre di risanamento o correttive tese a dare un nuovo corso all'economia. D'altronde, come avrebbe potuto, non avendone ancora le prerogative?

Basti pensare che esiste, nei TAP, un'Autorità Monetaria che, però, de facto, non esercita alcuna politica monetaria.d'altra parte, né i Palestinesi hanno ancora una moneta propria né sono uno Stato nel senso più completo del termine.

La situazione di ripresa, si può quindi concludere, è stata il frutto di positive contingenze esterne e di un clima politico di maggiore distensione che ha indotto il Governo israeliano a diminuire la frequenza delle chiusure, ad assumere quei palestinesi licenziati negli anni precedenti, ad incrementare i beni palestinesi prodotti su commessa di imprese israeliane.

Ma non ha modificato affatto quella peculiarità direi oramai strutturale dell'economia palestinese, che è l'estrema dipendenza dal mercato israeliano, e che la rende cosi vulnerabile alle contingenze esterne.

Gli eventi recenti rischiano, allora, anche di strozzarne ulteriormente le attività economiche esponendo a grossi rischi soprattutto quella fascia della popolazione più debole e già al di sotto della soglia della povertà.

L'elezione a Premier di Sharon che sovente ha chiarito e ribadito la sua politica relativamente alle trattative di pace: non è disposto a concedere ai Palestinesi oltre il 70% di Gaza ed il 42% della Cisgiordania; il proseguire di scontri ed attentati, con le inevitabili ritorsioni, e l'occupazione, anche se temporanea, di Beit Hanoon (Striscia di Gaza) da parte dell'esercito israeliano, sembrano aver trascinato l'area in una vorticosa spirale di violenza senza fine.



[1] Ad es. il succo concentrato di arance prodotto nella Striscia di Gaza e acquistato da sole industrie israeliane. E' un prodotto a basso valore aggiunto utilizzato per la produzione di succhi a base d'arancia.

[2] Un esempio è l'abbigliamento. Vista la forte competizione nel design da parte dei mercati occidentali e nel prezzo da parte dei paesi asiatici, l'abbigliamento non viene più prodotto da imprese israeliane che hanno sub-appaltato la produzione alle aziende palestinesi, dove i costi sono inferiori, e si sono rifugiate in un mercato di nicchia: quello dei tessuti high-tech.

[3] MAS Economic Monitor

Palestine Economic Policy Research Institute (MAS), April 2000

[4] A Briefing on Some Economic and Social Indicators for the Palestinian Economy

United Nations - Office of the Special Coordinator in the Occupied Territories, 22 November

[5] Annual Report, Palestinian Monetary Authority, 2000

[6] West Bank and Gaza Update - A Quarterly Publication

The World Bank Group, January 2000, April 2000, November 2000, February 2001

[7] The Impact of Prolonged Closure on Palestinian Poverty (revised)

The World Bank Group, November 2000

[8] West Bank and Gaza Update - A Quarterly Publication

The World Bank Group, February 2001


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Numero 13
luglio 2001










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