MEDIO ORIENTE - Il Conflitto Infinito
I POPOLI DEL DOLORE
di Agostino Spataro

Sommario:
dopo Arafat, si arriverà ad una vera pace?; un conflitto anomalo basato su visioni arcaiche e interessi strategici; Israele, fra democrazia e integralismo; palestinesi, regioni e contraddizioni di un popolo sotto occupazione; il ruolo della UE e dell’Italia: l’equidistanza attiva; la fallace scorciatoia della bolla antisemita.

Dopo Arafat, si arriverà ad una vera pace?
Che cosa riserverà ai palestinesi il dopo-Arafat? Sorgerà, finalmente, uno Stato indipendente palestinese? E soprattutto, si chiuderà l’annoso conflitto arabo-israeliano?
Sono questi alcuni interrogativi che frullano nella mente di ciascuno, ai quali sono chiamati a rispondere la politica e la diplomazia internazionali e, in primo luogo, le leadership israeliana e palestinese.
In campo politico si registrano due fatti nuovi che potrebbero avviare una dinamica inedita nelle relazioni israelo-palestinesi: il varo del governo minoritario di “unità nazionale” in Israele, voluto dal falco Sharon per attuare la decisione del ritiro dell’esercito israeliano dalla striscia di Gaza e l’elezione a presidente dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, un leader importante il quale, prima che dagli attacchi degli estremisti palestinesi, deve difendersi dalle sperticate lodi di Bush e degli amici dei governanti israeliani che rendono difficilissimo il percorso per giungere un’ampia intesa unitaria coi gruppi di resistenza, necessaria per tentare la ripresa del negoziato.
Segnali interessanti ma insufficienti per sperare in un accordo imminente, poiché si devono superare punti di contrasto molto seri e, soprattutto, la reciproca sfiducia e gli odi accumulatisi in quasi 40 anni d' occupazione militare e di conseguente attività di resistenza, anche di stampo terroristico.
Bisogna, infatti, rimuovere le cause profonde di un conflitto atipico che non è la classica lotta di liberazione anticoloniale (anche se c’è di mezzo un’occupazione militare), ma una guerra irriducibile fra un popolo che si sente vittima di una grande ingiustizia (i palestinesi) e un altro che si sente risarcito per le atroci sofferenze subite a causa di una più grande tragedia (gli ebrei).
Un conflitto caricato di significati e valori che, andando oltre l’oggetto specifico della contesa, ha acquisito risvolti a carattere geo-economico e geo-strategico, i cui esiti potrebbero condizionare il “nuovo equilibrio” che si vorrebbe creare (o imporre?) in un’area vitale del mondo, baricentrica fra Europa, Mediterraneo e il Medio Oriente, dove insistono le più grandi riserve mondiali d’idrocarburi.
Questi ed altri interessi e ragioni spiegano la lunga durata (il tempo di tre generazioni) del conflitto, malgrado l’enorme sforzo negoziale profuso a livello degli organismi internazionale.
C’è chi parla di una nuova “guerra dei cent’anni”. Speriamo proprio di no, anche se non possiamo dimenticare che sono già passati 57 anni, inutilmente.

Un conflitto anomalo basato su visioni arcaiche e interessi strategici
In questa tragica esperienza c’è qualcosa che non quadra. Si coglie l’impressione che alla base dello scontro vi siano visioni arcaiche antagoniste che nulla hanno a che fare col moderno diritto internazionale dei popoli e che per affermarsi si appellano - come nel caso delle associazioni ebraiche ortodosse- alla politica del fatto compiuto e al libro della Genesi.
Fino quando la politica non riuscirà a liberare il campo da tali assurde pretese sarà difficile conseguire la pace, poiché dall’una e dall’altra parte non si cercherà l’accordo, ma l’annientamento del nemico.
A volerlo, c’è un dato politico importante da cui partire: le decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che impongono il ritiro degli eserciti israeliani dai territori palestinesi occupati e il ritorno ai confini ante 1967, il riconoscimento dello Stato d’Israele e la creazione dello Stato palestinese indipendente e uno status speciale per Gerusalemme, città-simbolo delle tre principali religioni monoteiste, garantito dalla comunità internazionale.
Paradossalmente, Israele, unico Stato al mondo creato da una decisione dell’Onu, è il primo Stato al mondo che non rispetta quasi nessuna delle decisioni dell’organismo che lo ha generato.
Come se nulla fosse accaduto, in tutti questi anni, i governanti israeliani, di varia estrazione politica, hanno proseguito la politica di occupazione e di colonizzazione dei Territori e di sanguinosa rappresaglia che ha distrutto interi villaggi, fatto stragi di donne, vecchi e bambini e spinto molti giovani palestinesi nelle braccia di un terrorismo “preventivo”, sorto principalmente per contestare il ruolo dirigente dell’Olp e per ostacolare, con le autobombe e i kamikaze, il processo di pace.
Terrorismo che va condannato senza mezzi termini poiché, oltre a provocare stragi d’innocenti e innescare l’odiosa rappresaglia israeliana, non fa avanzare di un passo la giusta causa palestinese.
D’altra parte, c’è da notare che la mancata nascita di uno Stato palestinese consente all’economia israeliana, largamente finanziata da ingenti flussi di capitali e d'aiuti stranieri, di sfruttare alcuni milioni di lavoratori palestinesi senza diritti di cittadinanza, costituenti una massa enorme di forza-lavoro a bassissimo costo e, quindi, un fattore importante della celebrata competitività israeliana.
Comodo, troppo comodo! Invece d’importare manodopera clandestina dal Terzo mondo, come fa l’Europa che almeno deve sobbarcarsi il fastidio di accoglierla e di stabilizzarla, il capitalismo israeliano ha scoperto il suo “terzo mondo” a due passi di casa, nei Territori: milioni di operai e di braccianti palestinesi che ogni mattina fanno ordinatamente la fila al cheik-point e la sera rientrano nei loro fatiscenti campi profughi.
Non è, dunque, solo una questione di sicurezza o di promesse bibliche, ma un problema di vile profitto. Per fermare i più riottosi, Sharon sta costruendo un lungo e mastodontico muro della vergogna verso est, mentre a sud della striscia di Gaza, a Rafah, vorrebbe scavare una gigantesca trincea (4,5 km di lunghezza), profonda 10 metri e larga diverse decine di metri.
Certo che uno Stato che si circonda di muri e di trincee non manifesta una grande propensione a convivere in pace con i vicini o quantomeno resta prigioniero di una psicosi di massa fondata sulla “paura” dell’annientamento. Tutto ciò dispiace poiché trasforma la vita degli israeliani in uno strazio quotidiano. Ma, tant’è.

Israele, fra democrazia e integralismo
Israele è sicuramente uno dei pochi paesi democratici e pluralisti del M.O, tuttavia vive queste ed altre contraddizioni, sovente non evidenziate da certi autori molto ligi al richiamo dell’appartenenza e poco a quello di una corretta informazione.
Pochi sanno, per esempio, che lo Stato israeliano, a 57 anni dalla sua creazione, non ha una Costituzione, poiché anche i partiti progressisti (come i laburisti) temono che potrebbe essere varata una Carta di tipo confessionale. Quindi, meglio non averla che ritrovarsi con un predominio codificato del diritto rabbinico.
Anche questo è un grande problema che bisognerà affrontare in Israele dove stanno crescendo, anche sul piano elettorale, taluni partiti “ortodossi”, integralisti e fanatici e soprattutto propugnatori della teoria del “grande Israele”, ossia un destabilizzante proposito che, oltre all’annessione dei territori palestinesi, mira ad espandere lo stato ebraico dal Nilo all’Eufrate, secondo la geo-politica del vecchio Testamento.
Questo spiega anche il fatto che diversi gruppi israeliani e della diaspora, settori consistenti del Parlamento non desiderano un accordo equo con i palestinesi, fondato sul concetto “due popoli due Stati”.
Chi, come il primo ministro Rabin, ha tentato, seriamente, la via della pace ha pagato con la vita la sua scelta coraggiosa, per mano di un integralista ebraico. In qualsiasi altro paese, l’uccisione del primo ministro avrebbe comportato un forte sommovimento politico e morale, avrebbe determinato un’eccezionale azione investigativa per scoprire le eventuali implicazioni e connivenze. Invece, nel democratico Israele il caso è stato archiviato con la condanna del solitario assassino, reo confesso.

Palestinesi, ragioni e contraddizioni di un popolo sotto occupazione
Nel campo politico arabo e palestinese, seppure in un contesto contraddittorio, si è registrata una lenta evoluzione. Si è passati dal totale rifiuto di riconoscere l’esistenza d’Israele, e quindi delle stesse deliberazioni dell’Onu a riguardo, all’instaurazione di normali relazioni diplomatiche fra diversi paesi arabi e lo Stato ebraico. Grazie alla svolta è avvenuta ad Algeri, nel 1988, a conclusione del consiglio nazionale dell’Olp che, mediante una modifica dello statuto, sancì il riconoscimento delle risoluzioni dell’Onu relative alla nascita e alla sicurezza d’Israele, entro i confini antecedenti al 1967.
Purtroppo, non tutti i governi, i partiti e i movimenti arabi hanno maturato una scelta così netta, mentre permane una forte avversione nel variegato fronte integralista islamico che continua a minacciare “la distruzione d’Israele”.
Tuttavia, nella gran parte dell’opinione pubblica araba è cresciuta la predisposizione a vivere in pace con gli israeliani, addirittura in una prospettiva condivisa di rinascita economica e civile, purché cessi l’occupazione militare dei Territori palestinesi e del Golan siriano (anche qui sono state impiantate colonie ebraiche) e lo stato di sanguinosa tensione al confine con il Libano.
Malgrado tutto, la pace è possibile. Grazie anche all’opera di Yasser Arafat, grande politico e grande patriota, che è riuscito a dare una dignità di popolo ai palestinesi dei territori occupati e della diaspora e gettato le basi per un accordo equo e duraturo.
A Gaza, a Ramallah, a Hebron si agitano le bandiere della Palestina, ma non c’è ancora lo Stato indipendente. Questo è il compito della seconda fase della lotta palestinese che comincia col dopo- Arafat. Spetta ai nuovi dirigenti, eletti democraticamente, tentare di rilanciare il processo di pace, senza dimenticare di costruire una solida democrazia attraverso la partecipazione e il pluralismo politico, all’insegna dell’efficienza amministrativa e della trasparenza morale che, purtroppo, ha difettato negli ultimi anni. Un esempio operante che sia da riferimento anche per gli altri Stati arabi che purtroppo sono molto lontani dalla frontiera democratica.
A volte mi assale il sospetto che in M. O. si sia consumata un’odiosa congiura a danno del popolo martire di Palestina. Come se governanti israeliani e dittatori arabi si fossero accordati sottobanco per impedire la nascita di uno Stato palestinese laico e pluralista che, esaltando l’intelligenza e l’intraprendenza dei palestinesi, potrebbe entrare i concorrenza con Israele e dall’altro lato costituire un esempio pericoloso per le petromonarchie e per i tanti rais assolutisti che fanno il bello e il cattivo tempo nel mondo arabo.

Il ruolo della UE e dell’Italia: l’equidistanza attiva
La comunità internazionale, in primo luogo la defilata Unione Europea, ha il dovere di sostenere con fatti concreti lo sforzo dei nuovi dirigenti palestinesi, per rafforzare la speranza di pace in una tormentata regione contigua.
Lo si deve al popolo martire di Palestina che non può sopportare oltre l’occupazione straniera e ai bambini palestinesi e israeliani della terza generazione (dal 1948): affinché almeno loro possano crescere e vivere in pace e nella prosperità, senza più guerre, terrorismi e fanatismi.
L’Europa non può lasciare mano libera agli Usa in M.O. L’Italia di Berlusconi sta facendo di peggio appiattendosi sulle scelte di Bush e sostenendo in maniera acritica il governo Sharon.
Un allineamento immotivato che stride con la “equidistanza attiva” della nostra tradizionale politica mediterranea e mediorientale, che genera un solidarismo sospetto, a senso unico, da esibire ad ogni commemorazione di vittime israeliane delle stragi del terrorismo palestinese, mentre resta muto di fronte agli eccidi d’innocenti palestinesi provocati dalle odiose rappresaglie dell’esercito israeliano.
Per altro, tale appiattimento sta modificando, in negativo, la percezione che dell’Italia democratica e progressista si aveva nel mondo arabo, sia sul terreno politico e culturale sia su quello economico e commerciale.
Un accordo di pace fra palestinesi e israeliani per essere equo e duraturo dovrà fondarsi, in primo luogo, sul principio dei “due popoli, due Stati”. L’ideale sarebbe la convivenza in uno stesso Stato, ma al momento questa prospettiva è irrealistica, quantunque per millenni i due popoli, entrambi biblicamente “semiti”, abbiano convissuto in pace in Palestina e altrove.
Che tristezza! Ancora nel 2005, siamo alle prese col biblico Sem e i suoi pretesi discendenti (semiti) proposti come un riferimento discriminante nella moderna politica internazionale.
Viene da chiedersi: come mai nessuno si ricorda di Cam, l’altro figlio di Noè e capostipite degli africani? Forse, perché l’Africa non interessa proprio a nessuno!
Se arabi e israeliani avessero lasciato la religione fuori della politica forse la vicenda mediorientale non avrebbe avuto una così tragica evoluzione.

La fallace scorciatoia della bolla antisemita
Oggi, quando non si hanno argomenti per confutare le critiche verso l’avventurismo dei governanti israeliani, si ricorre alla facile ed abusata accusa dell’antisemitismo, quasi sempre evocando l’immane tragedia della Shoa. Una scorciatoia forse per non vedere come molti spezzoni dell’ebraismo non disdegnano la frequentazione e il sostegno di partiti e movimenti, in qualche modo, eredi “pentiti”di chi ha decretato le odiose leggi razziali del 1938 e collaborato con le deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio.
Come detto, il semitismo non è un attributo da riferire esclusivamente agli ebrei, ma, secondo le diverse leggende scaturite dal racconto biblico, semiti sono anche gli arabi e anche la fortezza di Sem si troverebbe sul monte Nogum che domina la città di Sana’a, nello Yemen.
Ma questa è leggenda! La scienza moderna invece ci dice che tutti i popoli che si affacciano sulle rive del Mediterraneo (compresi gli ebrei) hanno comuni basi biologiche e culturali e un forte grado d' affinità genetica. (In “Le risorse umane del Mediterraneo”, Ed. Il Mulino, 1990).
Perciò, è più corretto parlare di “antiebraismo”, circoscrivendone la dimensione ai fenomeni effettivi, provati, che bisogna combattere, senza generalizzazioni controproducenti, con le leggi (che esistono) e soprattutto con azioni di corretta informazione e movimenti culturali e umanitari.
L’antiebraismo, infatti, è un odioso sentimento razzista, nato e sviluppatosi in Europa e in genere nell’Occidente cristiano, che ha provocato le conseguenze gravissime e inaccettabili che sappiamo e che le frequenti visite di Fini in Israele non possono far dimenticare.
Soprattutto, noi, uomini e donne della sinistra, non abbiamo dimenticato l’immane a tragedia della Shoa e ancora oggi ci commoviamo quando vediamo un documentario o un film sui campi di sterminio.
Spero che altri, specialmente la gran parte degli ebrei democratici, non dimentichino che, insieme a milioni di loro correligionari, la follia del nazismo e del fascismo deportò e trucidò centinaia di migliaia di comunisti, socialisti, anarchici e di sinceri democratici, di zingari, religiosi cristiani, di soldati antifascisti, ecc.
Un tremendo campionario di morte formulato, scientemente, sulle base di deliranti motivazioni, non solo razziali, ma politiche e culturali.
La sinistra, per tradizione e per educazione, non ha mai coltivato sentimenti di tipo razzista, né contro gli ebrei né contro altri popoli del mondo. Siamo per l’uguaglianza e per la fratellanza fra tutti gli uomini e i popoli. Perciò non ci tange la “bolla antisemita” che potrebbe essere emanata da certi fanatici o da qualche fascistello convertito.
Siamo convinti che così agendo difendiamo il vero diritto d’Israele alla sicurezza nella pace. Come fanno- esponendosi a gravi conseguenze- i pacifisti e i soldati israeliani che, sempre più numerosi, si rifiutano di massacrare la popolazione civile palestinese.
Recenti sondaggi, svolti in Europa e negli USA, confermano l’esistenza di una crescente ripulsione della politica dei governanti israeliani i quali, invece d’interrogarsi per capirne il senso e la portata, li hanno bollati di “antisemitismo”. Così facendo non si programma un futuro di pace e di sicurezza, ma un nuovo disastro.
Liquidare come “antisemita” la maggioranza degli europei e il 40 % degli americani “rei” di pensare che la principale minaccia alla pace mondiale venga dall’attuale politica israeliana, mi pare una colpevole e arrogante miopia. Bisognerebbe convincerli del contrario, con fatti concreti.

Agostino Spataro

* Articolo apparso sull’ultimo numero della rivista “Il Grandevetro”


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