( LIBRI )

"POLITICHE DI CONFINE NEL MEDITERRANEO"
a cura di Gabriela Habich

“Per molto tempo ho avuto rimorso di viaggiare in paesi poveri. Ho finito per abituarmici e addirittura per non farci più caso. Siamo dunque a Marrakech, nel cuore di Buenos Aires, dove le strade, devo averlo già detto, «sono come le budella della mia anima» e quelle strade si ricordano molto bene di me”.
Tahar Ben Jelloun
Creatura di sabbia

I. Un esempio dal porto più lontano del Mediterraneo

Sono argentina, figlia e nipote d’immigranti. Non conobbi mio nonno tedesco, che morì prima che io nascessi, ma di lui mi è rimasto un vecchio volume con le sue note al margine: Il Mediterraneo di Emil Ludwig.
Per anni pensai che l’elenco dei nomi di porti scarabocchiati dietro la copertina -Istanbul, Cartagine, Barcellona, Genova, Siracusa, Venezia, Marsiglia, Alessandria, Salonicco, Buenos Aires - fosse la lista dei porti che aveva visitato e immaginai un Ulisse germanico agli albori del ventesimo secolo. Ma nella misura in cui sono riuscita a ricostruire la sua vita e la mia storia, ho scoperto che in alcune di quelle città di mare non era mai stato…
È ormai famosa la frase dello scrittore Carlos Fuentes sugli antenati degli argentini: “I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli incas e gli argentini… discendono dalle navi”. Da una popolazione di circa 1.7 milioni nel 1869, l’Argentina raggiunse quasi dieci milioni di abitanti nel 1926. La proporzione d’italiani era del 47.3 per cento (siciliani, calabresi, friulani, piemontesi e liguri, principalmente), mentre la proporzione degli spagnoli (gallegos, vascos –tra cui il mio nonno materno-, asturianos, catalanes, andaluces, valencianos) era del 32.2 per cento. Però non erano gli unici ad essere arrivati dal Mediterraneo. In minori quantità arrivarono greci, croati e iugoslavi, e dall’estremo orientale del Mediterraneo siriani, libanesi e alcuni turchi (uniformati tutti loro con passaporto ottomano che gli costò la denominazione generica, ancora in uso, di turcos). Non mancarono gli ebrei, provenienti da Russia, Polonia e Romania, ma anche dal Marocco, e dalle città di Damasco e Aleppo. Buenos Aires non fu solo testimone della loro convivenza, ci fu anche un fenomeno eccezionale per i popoli del vecchio continente: la fusione del sangue, il mestizaje.
Non risulta difficile immaginare il vario mosaico delle popolazioni che arrivavano e la conseguente introduzione del pluralismo linguistico, etnico, politico, religioso e culturale. I luoghi pubblici di socializzazione del Mediterraneo tappezzarono e diedero forma alla vita porteña, in una sorta di originale clonazione: i caffè, che costituiscono un timbro inconfondibile della vita di Buenos Aires; i kioskos, introdotti dagli immigrati greci, senza i quali le strade della città sarebbero spoglie e le giornate meno dolci; l’edilizia, che fece di Buenos Aires la capitale di un impero mai esistito, in mano agli immigrati o ai loro figli; la gastronomia, che ha arricchito la cucina criolla introducendo tra i piatti tipici la fugasa -la focaccia-, el fainà -la farinata-, la bagna cauda, la paella, i chipirones, il kibbeh, la hommos tahina, il chukrut, las borscht, il cholent.
Il linguaggio dei porteños, inoltre, crebbe pieno di parole rubate alle lingue e agli innumerevoli dialetti dei nuovi cittadini: una società cresceva sotto il segno di una familiare “estranierità”.
A partire dall’ultima decade dell’ottocento Buenos Aires si trasformò, poco a poco, in un porto lontano, però interno, al Mediterraneo. Le geografie non sono solo fisiche, costituiscono anche dei paesaggi mentali.

II. Il labirinto delle politiche culturali

L’Istituto Internazionale Jacques Maritain ha avviato da vari anni una riflessione sullo sviluppo culturale e sulle politiche culturali e dal 1999 ospita la Cattedra UNESCO “Pace, sviluppo culturale e politiche culturali” .
Sin dal suo inizio, la Cattedra si è proposta di elaborare una visione critica dell’evoluzione dei processi e dei sistemi culturali sia nelle società industriali avanzate che nei paesi in via di sviluppo. In questa prospettiva, le dimensioni della multiculturalità e dell’interculturalità assumono una valenza primaria, e vanno intese come momenti di analisi e valorizzazione degli specifici apporti che ciascun soggetto e ciascuna cultura possono fornire allo sviluppo della società; sviluppo che, nella sua espressione più piena, deve essere compreso come sviluppo culturale e non riducibile alla sola dimensione economica.
Negli ultimi anni, diversi conflitti di natura interetnica hanno minato la convivenza pacifica nel bacino del Mediterraneo e, più in generale, nel mondo. Se riconosciamo che le differenze culturali costituiscono una irreprimibile manifestazione della ricchezza dello spirito umano, allora dobbiamo porci una serie di domande: si può parlare di un nesso causale diretto tra identità diverse e lo scatenamento dei conflitti? In quali modi la creatività culturale genera dinamiche che influiscono sul modo in cui i gruppi sociali comprendono se stessi e si pongono in relazione con gli altri? Come si sviluppano queste dinamiche all’interno della nuova architettura politica e sociale promossa, direttamente o indirettamente, dai processi di globalizzazione? Come integrare le minoranze etniche e la loro cultura senza rimettere in causa i diritti di tutti (in particolare la laicità dello Stato?). Tutto ciò porta a riconoscere una necessità: rendere la diversità oggetto di profonda riflessione; riconoscerla è il primo passo per capirla. Conoscere il pluralismo culturale in sé non è, però, sufficiente. La cultura, per esempio, è associata ai piú alti valori dello spirito umano, al pieno svolgimento delle capacità ludiche e creative dell’essere umano, ai riferimenti piú importanti per la produzione di senso di appartenenza e di identità politica, ma dobbiamo fare attenzione alla tendenza alla sopravvalutazione del significato attribuito alla cultura e al conferimento ad essa di qualità trascendenti, quasi mistiche . Non possiamo dimenticare che la cultura non costituisce in se stessa un bene intrinseco: le biblioteche, i musei, i teatri e le università possono prosperare perfettamente all’ombra dei campi di concentramento. Adesso lo capiamo: la cultura non ci fa piú umani, può anche renderci insensibili di fronte alla miseria umana. Solo nella cornice di un’educazione basata sul rispetto dell’altro e sulla solidarietà si possono evitare le atrocità che a nome della cultura abbiamo visto commettere dai regimi totalitari.
È allora necessario stabilire un programma di politiche che affrontino la complessa rete di elementi socio-culturali per favorire la convivenza tra culture. Non si tratta solo di conoscere il ruolo che la cultura, o meglio le culture, hanno assunto nelle dinamiche d’integrazione o di ghettizzazione sociale, ma anche di promuovere e gestire il rispetto e la solidarietà reciproci sulla base dei bisogni di ciascuno.
Appare quindi necessario rafforzare la cooperazione tra istituzioni pubbliche, private e non profit del settore culturale; promuovere il ruolo delle politiche culturali finalizzate alla realizzazione di una cultura della pace, dello sviluppo e dei diritti fondamentali dell’uomo; definire politiche culturali improntate ad uno spirito democratico e collocate in una prospettiva di sviluppo sostenibile, sulla base di una visione internazionale e multiculturale; sostenere politiche che favoriscano il rispetto delle identità, dei diritti culturali e del diritto alla pace intesi, nella loro forma più alta, come diritti umani. Non basta delineare politiche culturali che si occupino dei beni e delle attività culturali intesi come oggetti da preservare, promuovere o ricuperare. L’elaborazione di politiche culturali contribuisce fortemente alla razionalizzazione degli atteggiamenti nei riguardi del patrimonio culturale e delle tradizioni, della comunicazione culturale, della creatività in ambito culturale, della modernizzazione delle infrastrutture culturali, etc. Le politiche culturali però devono guardare anche verso i processi di trasformazione della cultura, tentare di prevederne i cambiamenti e, se possibile, guidarli.
La triade diversità-rispetto-solidarietà trova nei processi di globalizzazione un terreno complesso per il suo sviluppo. Senza dubbio, alcuni fenomeni della globalizzazione, come le migrazioni, il rapido progresso tecnologico, le scoperte scientifiche e le loro applicazioni (in particolare nell’ambito delle telecomunicazioni) hanno comportato cambiamenti profondi: nella concezione della democrazia, nell’idea di sovranità, nel ruolo degli Stati-nazione, nello sviluppo dell’economia, nel mercato del lavoro, nella gestione delle risorse, nelle modificazioni della qualità della vita, del tempo libero e delle relazioni sociali, nello sviluppo delle professioni e dei mestieri, nella costituzione di comunità e gruppi sociali, nelle modalità del controllo sociale, nella privacy, nelle forme artistiche e, piú in generale, nel modo in cui le persone si identificano e percepiscono la diversità culturale.
In particolare, la sfida di articolare la diversità culturale nel rispetto e nella solidarietà, non può tralasciare la riflessione sul ruolo che le nuove tecnologie, intese come Information Communication Technologies (ICT), e i mass media hanno come strumento di mediazione culturale. In questa cornice, il problema è molto più complesso rispetto allo iato esistente tra lo sviluppo tecnologico dei paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. L’industria culturale è un ottimo esempio di ciò .
Sebbene le politiche culturali abbiano una specificità che le differenzia dalle altre politiche (in particolare dalle politiche della formazione e della comunicazione), dobbiamo riconoscere il profondo legame esistente tra loro. Ci sono, quindi, delle zone di confine fra le politiche culturali e della comunicazione in cui entrambe hanno un ruolo decisivo nella trasformazione delle pratiche culturali.
Anche le politiche culturali dovrebbero trovare nei paesaggi mentali i loro oggetti.

III. Il filo di Arianna

Il presente volume propone una serie di riflessioni sulla multiculturalità nel Mediterraneo dalla prospettiva delle politiche culturali, concependo queste ultime come asse trasversale di altre politiche . In poche parole, abbiamo voluto esplorare in sfere e casi diversi come le politiche culturali facciano parte, in generale, della cultura politica e, in modo particolare, delle politiche dell’immigrazione, delle politiche demografiche, dell’integrazione, della cooperazione, etc.
Alcuni chiarimenti sono d’obbligo. Abbiamo evitato intenzionalmente il dibattito sulle differenze tra multiculturalità, interculturalità, transculturalità, e le altre “culturalità”; sebbene si tratti di un ricco dibattito ancora aperto, il nostro scopo non era quello di entrare nel merito .
Da un'altra parte, anche senza avere una prospettiva storica, gli articoli offrono una visione braudeliana della multiculturalità , rompendo con la tendenza a far delle culture (“l’Occidente”, “l’Islam”, “i cristiani”, “i musulmani”) un’unità monolitica. Inoltre, enfatizzando processi e contesti, risulta possibile evitare che il multiculturalismo diventi una fonte di rivendicazione etnica o religiosa (sintomo di una percezione di tipo etnico e culturalista delle società e delle culture), trasformandolo piuttosto in una “metodologia” che aiuterebbe a comprendere certi conflitti sociali.
Per esempio, tanto Khaled Fouad Allam quanto Stefano Allievi denunciano questa riduzione. Il primo chiama “percezione culturalista” l’approccio secondo il quale esiste una relazione esclusiva tra il corpus di testi dell’Islam e le comunità che si definiscono musulmane, e che tra l’altro rende prigionieri dei testi l’Islam, le società musulmane e la loro trasformazione sociale. Allievi, analogamente, sostiene che l’attenzione deve essere spostata dalle fonti dell’Islam ai musulmani: comprendere l’Islam significa capire la sua relazione con i musulmani nelle società contemporanee.
Non è lontana da questa posizione la riflessione di Robert A. White, profondo conoscitore dei fenomeni di meticciato in America Latina, che affronta il problema del multiculturalismo sotto la chiave dei discorsi (egemonico vs. polisemico) veicolati dai diversi media all’interno di ciò che lui chiama un complesso tessuto di subculture.
Sullo sfondo di questo volume c’è inoltre l’idea, comune al teorico francese Edgar Morin , che le culture “più autentiche” sono quelle meticcie. In altre parole: di fronte alle immigrazioni si dovrebbe essere, al tempo stesso, conservatori e rivoluzionari, cioè, mantenere le tradizioni e promuovere il meticciato culturale. Questa è una stimolante chiave di lettura per analizzare le tensioni tra il globale e il locale, fra consumo culturale di matrice globale da una parte, e rivendicazioni di fenomeni culturali frammentati e locali dall’altra. È chiaro che le tensioni tra locale e globale acutizzano la naturale e inerente oscillazione dell’identità tra conservazione e rinnovamento, però le basi dell’identità non sono fondamenta inamovibili, sacre o di natura essenzialista; al contrario, sono frutto dello stesso gesto che le colloca come un punto di ancoraggio per alcuni tipi di pratica sociale e culturale .
Ciò è fondamentale nel caso degli immigrati: essi non rimangono mai tali e quali; non accettare questo significherebbe negare la complessa traiettoria che comporta il vivere in prima persona l’immigrazione. Il fatto di vivere in un’altra società implica sempre una trasformazione dell’identità di partenza: l’immigrato non è mai lo stesso di prima, perché è costretto a confrontarsi in un corpo a corpo con una realtà che gli è completamente nuova e tante volte ostile. Buenos Aires, il porto più lontano del Mediterraneo, trovò così la sua “identità”: italiani, spagnoli, greci, iugoslavi, etc., dovettero trovare il modo di essere tali in un nuovo Paese, una nuova cittadinanza sorgeva dalla dislocazione. Tale sradicamento si acutizza ancora di più nel caso di certe religioni. Per esempio, il musulmano che esce dal suo Paese vive in una struttura deterritorializzata: quando è nel suo Stato egli si riconosce come appartenente a uno Stato musulmano, quando invece si trova in Europa, deve trovare lui stesso la forza interiore per sentirsi musulmano anche in terra straniera. Assistiamo così a un significativo cambiamento: il passaggio da un Islam di tipo comunitario nei Paesi di origine, a un Islam maggiormente individuale nei paesi di arrivo. Nel silenzio della società d’accoglienza, sorge l’Islam dell'immigrazione; attraverso questa deterritorializzazione l’identità del musulmano non è più la stessa .
È in questo quadro che la multiculturalità diventa non soltanto una questione relativa alla concezione dell’alterità, ma innanzitutto una gestione politica estremamente complessa , soggetta anche essa alle trasformazioni delle culture politiche. Risulta rivelatore, anche in questo caso, l’analisi di Nada Švob-Đokić sul ruolo che le politiche culturali possono avere nella costituzione di una nazione e come possono essere di fondamentale importanza ai fini dell’accettazione della diversità culturale come pure della comunicazione e della cooperazione interculturale.
Diversi autori, tra i quali Sabourin, Melotti e Isar, sottolineano alcuni degli elementi che giovano in questi cambiamenti: da una parte, l’indebolimento dello Stato-nazione, dall’altra parte, la crescita del fenomeno della globalizzazione e il delinearsi di un nuovo ordine mondiale; fenomeni tutti questi che paradossalmente, insistono gli autori, tendono ad accentuare la radicalizzazione delle appartenenze identitarie .
Non è una novità che viviamo oggi, in modo generalmente conflittuale, due livelli di identità: un'identità di tipo mondialista che appartiene al villaggio globale e un'identità che rivendica la sua specificità. Dall’impossibilità di articolare e conciliare questi conflitti nasce il radicalismo. Nei periodi di crisi, il radicalismo diventa il segmento che urta contro la storia provocando estrema violenza. I fanatismi e i fondamentalismi crescono da tale urto tanto nell’Islam quanto nell’Occidente. La reazione estremista, che in alcuni casi diventa ancora più complessa associando la violenza al sacro, nasce dalla frustrazione di una comunità che si sente usurpata della propria autonomia, sempre più emarginata nelle sue diversità. Non a caso è proprio tra gli emarginati, nelle periferie delle grandi città, che maturano i nuovi fondamentalismi: giovani che vivono frustrazioni insopportabili nel confronto di modelli fasulli di successo, bellezza e potenza e che presto fanno i conti con il fallimento. Come evitare che le nuove generazioni convoglino in un pensiero unico, a-storico e decontestualizzato, che vede nell'altro un nemico e che difficilmente permetterà l’integrazione sociale?
Dai testi che compongono questo volume sorgono cinque elementi chiave nel panorama della gestione delle differenze multiculturali:
1) La riduzione dell’alterità ad una appartenenza religiosa
Dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, l’attenzione verso l’alterità si è centrata quasi esclusivamente su come trattare l’Islam e le minoranze musulmane presenti oggi in Europa, lasciando di lato una visione olistica, o almeno complessiva, dei rapporti multiculturali nelle nostre società. Si rischia di ridurre i rapporti multiculturali ad una sorta di polarizzazione: “noi” e “i musulmani”.
2) Le profonde trasformazioni demografiche (qualitative e quantitative)
La presenza di forti minoranze nel cuore dell’Europa (si pensi solo ai 20 milioni di musulmani censiti), l’immigrazione di massa (che difficilmente si fermerà) e il tasso di crescita delle comunità di stranieri (almeno cinque volte in più rispetto ai “nativi”) definiscono una riconfigurazione multietnica dell’architettura antropologica europea che, nei prossimi trent’anni, avrà un’alta incidenza sulla vita sociale e culturale. Le politiche culturali dovrebbero essere attente a queste trasformazioni, monitorarle e stabilire scenari futuri di vita socio-culturale.
3) Se la gestione si basasse sulla conoscenza...
Come prevedere e “guidare” i cambiamenti sociali? Come stabilire degli scenari d’integrazione multiculturale e di convivenza pacifica? La necessità di studi di campo e monitoraggio dei processi culturali sorge come un’urgenza sottovalutata. Gli studi empirici della sociologia (ma anche di altre discipline come l’antropologia, la scienza politica, la comunicazione, etc.) ci permettono di affermare cosa accade, oggi, nelle nostre metropoli, comprendere come si incarnano e si sviluppano gli elementi che conformano le identità, quali sono i punti di conflitto tra lo straniero e la cultura ospitante, come le politiche culturali dei paesi europei affrontano il problema della diversità culturale e delle relazioni interculturali, etc. Senza questa conoscenza risulta inutile la pianificazione di qualsiasi politica di gestione dei rapporti multiculturali .
4) Le «liaisons» tra cultura e filosofia politiche
Su un’altra scala, la multiculturalità pone anche dei problemi di dimensione politica da non sottovalutare; la questione dell’identità dell’Europa ne è un buon esempio (si pensi ai dibattiti, ad esempio, sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e la conseguente inclusione di una dimensione musulmana in Europa, affianco al cristianesimo e all’ebraismo). Probabilmente questo è uno dei casi che illustrano come il problema del multiculturalismo vada aldilà della concezione dell’altro e della gestione delle differenze culturali: anche il processo d’integrazione europea dovrà articolare cultura politica e filosofia politica . Come bene sostiene Allam, non saremmo capaci di costruire un’Unione Europea senza una sutura fra storia, memoria e appartenenza; e per farlo dovremmo tessere una trama consistente fra identità culturale e cittadinanza.
5) Quale cittadinanza?
Il lavoro sulla multiculturalità trova essenzialmente nel piano politico-giuridico un terreno tutto ancora da costruire . Probabilmente la prima riflessione da affrontare è la cittadinanza. La cittadinanza culturale e l’identità dell’Europa costituiscono due categorie che, antropologicamente, sociologicamente e giuridicamente, potrebbero stabilire un ponte fra identità culturale e cittadinanza (tenendo comunque conto delle voci che si chiedono se la cittadinanza abbia senso nel contesto degli stati post-nazionali e se la cittadinanza sia la categoria adatta per andare oltre le limitazioni degli stati, abbracciando il corpo dei diritti umani nel contesto della globalizzazione, dei movimenti transnazionali e dei diversi localismi).
Sappiamo che tanto l’idea di cittadinanza, quanto l’idea di identità culturale non sono categorie statiche né monolitiche. Oggi, la “cittadinanza culturale” e l’“identità europea” sostengono due concezioni diverse di cittadinanza, ma non per ciò mutuamente escludentesi. Nell’ambito della cittadinanza culturale, la cittadinanza tratta di diritti e doveri politici, civili, economici e culturali che prendono forma da un background culturale verso un contesto relazionale. Invece, l’identità europea (sempre in termini di un’identità dell’Europa) è più vicina ad una concezione liberal della cittadinanza che include i diritti politici e civili nella sfera pubblica.
È chiaro che una futura cittadinanza europea dovrebbe tener conto di almeno entrambe le concezioni e non dovrebbe dimenticare le diverse esperienze che gli europei hanno vissuto in quanto immigranti.

IV. Le voci dal porto più lontano del Mediterraneo

Il mistero sull’elenco dei nomi di porti scarabocchiati dietro la copertina del libro di Emil Ludwig rimase tale fino il giorno in cui sentii, a Genova, i pescatori tornare in porto cantando. Credevo di essere a Mar del Plata.
I vecchi pescatori di Mar del Plata sono nipoti di genovesi, ma sono argentini, cittadini argentini che parlano un castellano argentinizzato e che, pur avendo dimenticato il dialetto dei loro nonni, continuano a cantare le loro canzoni e a mangiare, la domenica, ciò che loro mangiavano. Alcuni di questi nipoti sono tornati in Italia, altri non metteranno mai piede su questa terra; paradossalmente, la memoria è riuscita a ricucire ciò che veniva dimenticato e ha prestato le basi per configurare una nuova identità.
Le basi dell’identità non sono fondamenta inamovibili, come non lo sono neanche i punti di ancoraggio sociale: si trasformano, si contaminano, subiscono delle discontinuità. Martha Nussbaum sostiene che abbiamo conferito alla società le stese illusioni che avevamo sull’identità individuale e che, in contrapposizione all’idea di un’unità e permanenza dell’io o del soggetto, dovremmo considerare (tanto a livello individuale quando a livello del corpo sociale) un’intrinseca condizione di fluttuazioni e molteplicità dell’io .
Questo lo sapeva già da qualche tempo la letteratura, che tante volte è il miglior ricercatore sociale,

“basti dire che l’io narrante cambia molto speso identità quasi senza soluzione di continuità (ora è il personaggio protagonista della vicenda, ora un cantastorie che si aggira per le piazze del Marocco, ora alcuni suoi ascoltatori, ora addirittura un «trovatore cieco» ex bibliotecario a Buenos Aires …); la stessa vicenda narrata viene continuamente modificata e smentita da interpretazioni e sconvolgimenti; il narratore si affaccia spesso, sotto trasparenti travestimenti …” .

L’unico rischio che corre una società multiculturale, aldilà della nostalgia, è il non essere capace di assumersi come tale per tempo.

Gabriela Häbich
*Rubbettino Editore, giugno 2004, pagg. 281, euro 17,00

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