PER LA DEMOCRAZIA IN MEDIO ORIENTE, DIALOGARE CON LA SOCIETA’ CIVILE*

di Fabio Alberti

IRAQ: Il RITIRO DELLE FORZE OCCUPANTI PER UNA SOLUZIONE POLITICA DELLA CRISI

La guerra in Iraq ha fatto già oltre 100.000 morti. Sono abbastanza. Occorre che si trovi presto una via politica per uscire dalla violenza.
Non so dire se si sia trattato di una strategia voluta, in molti affermano che la creazione del caos e l' istigazione alla violenza è una conseguenza intenzionale della politica statunitense. In ogni caso, la guerra non ha portato né la pace, né la democrazia, né la sicurezza, ma ha spinto il paese sull’orlo della guerra civile, prolungato la crisi umanitaria, impedito la ripresa economica e costretto gli iracheni a subire una condizione d' insicurezza insopportabile.
Anche sul piano della democrazia, ultima giustificazione adottata a favore della guerra, dopo che tutte le precedenti motivazioni si sono rivelate pura propaganda, la coalizione occupante ha fallito. Lo abbiamo visto nelle foto di Abu Graib e in altri passaggi significativi dell’occupazione, caratterizzati da un elemento comune: la ricerca non già di una libera espressione della volontà popolare, ma la costruzione di un “governo amico” che garantisse gli interessi strategici statunitensi.
Ma cercare un “governo amico” è qualcosa di diverso dal cercare la democrazia. Le conseguenze di questo comportamento sono sotto gli occhi di tutti: la maggioranza degli italiani sono stati e sono contro questa guerra e, ancor di più, contro l’invio di nostre truppe a sostegno dell’occupazione militare anglo-americana. Il Governo ha voluto fare il contrario.
Confidiamo in un nuovo governo che, rispettando la volontà del popolo italiano, proceda al ritiro del contingente italiano. Consideriamo quindi l’annuncio di un parziale ritiro, come un primo successo.
Ma serve molto di più.
Le elezioni in Iraq hanno mostrato che il paese resta segnato da una profonda divisione che, se non recuperata, sarà la base per nuove violenze e la giustificazione per l’ ulteriore permanenza delle truppe di occupazione.
Tuttavia, vi sono segnali importanti: ci sembra di grande importanza la dichiarazione del 15 febbraio dell’opposizione patriottica che chiede l’avvio di un processo di dialogo nazionale subordinandolo solo alla fissazione della data di ritiro delle truppe e condanna gli attacchi ai civili. E’ di grande importanza la manifestazione del 9 aprile a Baghdad, convocata dallo stesso arco di forze, che segna la nascita di un' opposizione politica.
Il dialogo nazionale è oggi ostacolato da molti, dagli occupanti e dal terrorismo. Perciò, necessita del sostegno internazionale e, in primo luogo, dell’Italia e dell’Europa.
Si ritirino le truppe e si chieda con forza di farlo agli altri paesi, e si dia una sponda con iniziative politiche, diplomatiche ed economiche al processo di dialogo interno che porti alla sovranità.
Questo è quello che chiediamo al Governo italiano e all’Europa. Per questo è tanto importante che le truppe italiane si ritirino. Senza il ritiro l’Italia non avrebbe la credibilità necessaria.
A sostegno di questa prospettiva la nostra proposta è quella di assumere, come movimento per la pace, la responsabilità di lavorare ad una soluzione politica, partendo dall’organizzazione, nel nostro Paese, di una conferenza irachena “per il dialogo, la riconciliazione e la sovranità”.
Nel fare questo dovremmo dare nuovo impulso alla lotta per il ritiro immediato delle truppe italiane come precondizione per una diversa politica.
In Iraq, intendiamo sostenere quella parte della società civile irachena che coniuga la lotta contro l’occupazione a quella per i diritti. Sono nate in Iraq migliaia di nuove organizzazioni laiche e religiose che manifestano, con chiarezza, la volontà della gente di contribuire alla ricostruzione del paese e a costruire il futuro. Il nostro impegno è di sostenere i loro progetti,
Dobbiamo continuare nella realizzazione del progetto “Costruire ponti di pace” e rilanciare l’obiettivo di allargare gli spazi e le opportunità di contatto tra le società civili italiana e irakena.
Il passo successivo dovrebbe essere il coinvolgimento degli enti locali, mediante una Conferenza delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata con l’Iraq, con la presenza delle organizzazioni irachene, nella quale porre le basi di una nuova fase di cooperazione, legata ai territori in Italia e alle organizzazioni irachene in Iraq.

COMBATTERE IL TERRORISMO
Per fare ciò occorre condannare con chiarezza il terrorismo.
Oggi il terrorismo è percepito dalla gran parte degli iracheni come un proprio nemico.
La guerra lo ha innescato, lo scioglimento dell’esercito e della polizia irachena e il mancato controllo delle frontiere l' hanno favorito, le quotidiane violazioni dei diritti umani, gli abusi, le brutalità dei soldati americani, i fatti di Abu Graib lo hanno alimentato, la mancata ricostruzione gli ha fornito manovalanza. Tutto ciò è vero, e per questo le potenze occupanti, Italia compresa, ne portano la responsabilità politica. Dietro ad ogni attentato, ad una chiesa o moschea saltata, ad ogni disoccupato ucciso, ad ogni donna minacciata c’è una responsabilità politica che rinvia a chi ha cominciato questo gioco al massacro e lo ha condotto in modo da alimentare la violenza.
Ma la responsabilità diretta delle uccisioni è di chi le compie e questo non possiamo sottacerlo. La vita degli iracheni e delle irachene non è più solo minacciata da una guerra illegale e da un' occupazione brutale, ma anche da organizzazioni armate irachene che usano il terrorismo contro la popolazione irachena stessa in relazione allo scontro di potere per il controllo del paese.
Il terrorismo minaccia gli iracheni nella loro vita quotidiana e si configura come la più grave minaccia d’ instaurazione di uno stato totalitario e negatore dei diritti.
Anche questo hanno voluto dire gli iracheni che hanno partecipato al voto del 30 gennaio, nonostante la grave carenza di legittimità che tali elezioni avevano.
Il terrorismo è un nostro nemico, è nemico degli iracheni che, come tutte le persone del mondo, aspirano ad una vita normale, a poter mandare ai figli a scuola senza temere di non vederli tornare.
Per battere il terrorismo non servono le operazioni militari che invece lo alimentano, occorre al contrario che la presenza militare straniera cessi e si avvii un processo politico interno ed autonomo dalle forze di occupazione che porti all’unità del paese e all’isolamento del terrorismo.
Per battere il terrorismo occorre che si riconosca legittimità alla resistenza impegnata contro l’occupazione e disponibile ad un dialogo nazionale democratico, che non significa necessariamente condividerne le scelte.

MEDIO ORIENTE: UN NUOVO APPROCCIO GLOBALE
Non è più possibile trattare l’Iraq, il Libano, il Kurdistan come se fossero casi a se stanti. In realtà, sono profondamente inseriti in una dinamica regionale interconnessa, nella quale molti processi sono comuni.
Medio oriente/vicino oriente/mondo arabo/spazio mediterraneo. Molte sono le definizioni di quest’area ed ognuna sottende anche una lettura della situazione e un’ipotesi politica. Abbiamo bisogno di approfondire conoscenze e ragionamenti per definire meglio la nostra analisi ed anche il nostro linguaggio. Possiamo però cominciare con il notare alcuni fatti.

Primo: I rapporti dell’UNDP sullo sviluppo umano nei paesi arabi parlano di paesi “più ricchi che sviluppati”. In sostanza i ricercatori arabi che li hanno redatti denunciano il fatto che la ricchezza di questi paesi, dovuta al petrolio, ma anche alle potenzialità della sua gente e alla profondità della propria storia e cultura, non si è trasformata in benessere, diritti, libertà per la popolazione. Le condizioni di vita nella maggioranza dei paesi arabi sono tuttora inaccettabili. Nei 22 paesi che aderiscono alla Lega araba il 20 % delle persone vive ancora con meno di 2 dollari al giorno, la aspettativa di vita e il livello di istruzione sono inferiori alla media mondiale. Lo sviluppo dell’area è stato negli ultimi 30 anni dello 0,2% ed attualmente non supera il 0,5%.
Si prevede quindi, ed è già in atto, una progressiva perdita di posizioni dei paesi arabi nella graduatoria mondiale UNDP per indice dello sviluppo umano.
Nel loro complesso, i paesi arabi sono già oggi all’ultimo posto della graduatoria mondiale per quanto riguarda altri tre indicatori di sviluppo umano presi in considerazione: conoscenza, libertà, partecipazione della donna. Questi tre elementi sono considerati, nei rapporti UNDP, i principali gap da colmare per permettere lo sviluppo dei diritti delle persone in quest’area. In sostanza in nessun paese arabo si può parlare di democrazia.
Pur non dovendo necessariamente adottare acriticamente i criteri e i risultati della ricerca, che comunque è stata condotta esclusivamente da istituti di ricerca arabi, l' analisi risulta convincente. Sui questi gap di sviluppo umano dovremo approfondire il ragionamento per orientare meglio le nostre scelte progettuali.
La mancata soluzione della questione palestinese e il perdurare dell’occupazione israeliana, il susseguirsi di conflitti nell’area e, da ultimo, l’invasione e l’occupazione dell’Iraq e la cosiddetta “lotta al terrorismo” (il rapporto nota a questo proposito che anche nel mondo arabo la lotta al terrorismo è stata giustificazione per politiche di riduzione delle libertà individuali immotivate) sono tra le più rilevanti cause esterne di questa situazione.
Vi sono poi gravi responsabilità storiche dei paesi più industrializzati, della politica coloniale e postcoloniale.
Tuttavia, la condizione in cui vivono, nel mondo arabo, quasi trecento milioni di persone non sono spiegabili solo con le responsabilità occidentali. Esse nascono anche da governi corrotti, nepotisti, totalitari, che non godono del sostegno delle popolazioni e che si reggono con la violenza, la repressione e spesso solo grazie al sostegno dei nostri paesi. Sono questi i cosiddetti “governi arabi moderati” considerati in occidente alleati fondamentali nella lotta al terrorismo. Il fatto che le politiche autoritarie e filo-occidentali di questi governi siano tra la cause del fenomeno del terrorismo non viene nemmeno preso in considerazione.

Secondo Le grandi potenze mondiali hanno da tempo adottato una strategia d’area, le politiche dei paesi industrializzati verso il mondo arabo non sono solo la somma delle politiche verso ogni singolo paese. Il presidente Bush non ha mai nascosto che l’invasione dell’Iraq è solo una parte di una strategia di ridisegno di tutta l’area. Gli Stati Uniti hanno quindi lanciato la cosiddetta “iniziativa per il grande medio oriente”, (ribattezzata dal G8 “del Medio Oriente allargato”); l’Unione Europea ha promosso il “ partenariato euromediterraneo”, gli Usa promuovono accordi commerciali bilaterali, l’U. E. parla di area di libero scambio. Dietro alle due proposte si celano differenze d' interessi strategici e d’ impostazioni, tuttavia gli obiettivi sono sostanzialmente comuni.
Sul piano economico si spinge per l’inclusione del mercato arabo nel libero mercato globalizzato, sul piano strategico la garanzia dell’approvvigionamento energetico a sostegno dell’ economie occidentali.
Dal punto di vista politico si tende ad una riforma dei sistemi politici (la cosiddetta “primavera democratica”) che permetta di superare la debolezza degli attuali riferimenti che rischiano di venir meno a causa della loro impopolarità.

Terzo Anche il terrorismo ha una strategia d’area. Forte del fallimento o della sconfitta delle esperienze dei regimi nazionalisti postcoloniali, è cresciuto anche grazie al sostegno ricevuto, sino a poco tempo fa, dall’occidente. Al Qaida ed altri gruppi dell’islamismo politico armato propongono come alternativa globale agli attuali regimi una riforma in senso autoritario dei sistemi politici utilizzando a questo fine categorie religiose, praticando lo scontro “di civiltà” con l’occidente e sostenendo questa strategia con una pratica terroristica. Sembrerebbe che nei paesi arabi l’alternativa sia solo tra la dominazione occidentale e stati Talebani, ma così non è.

Quarto Nei paesi arabi si sta affacciando, animata da gruppi di intellettuali e da una società civile sia laica che religiosa, un’altra ipotesi che rifiuta l’alternativa insostenibile tra dominazione occidentale, terrorismo e autoritarismo e che richiede una riforma politica che abbia al centro insieme la sovranità e i diritti delle persone; la democrazia e l’indipendenza dei popoli. E’ un' alternativa basata sull’ espansione delle libertà civili e della partecipazione e del protagonismo popolare. E’ un' alternativa difficile perché non ha veri sostenitori nel panorama politico mondiale.
Pensiamo che sia compito del movimento per la pace proporsi come partner di questa parte del mondo arabo. Anche per noi si pone, dunque, il problema di una strategia di largo respiro che approcci l’area nel suo insieme.

ACCETTARE LA SFIDA
Occorre, in sostanza, che si accetti la sfida dei diritti e della democrazia e non si lascino queste parole d’ordine a chi ha sostenuto e continua a sostenere ogni genere di dittatura e a Bin Laden la bandiera della lotta per la sovranità.
E’ la nostra sfida, perché diritti e libertà sono indivisibili, perché il futuro anche dei nostri paesi è nella convivenza.
Vorremmo opporci all’idea che la democrazia, cioè la partecipazione dei cittadini alla determinazione del proprio futuro, sia una prerogativa occidentale. Lo dimostra recentemente in un bel libro Amartya Sen.
Vorrei ricordare che nell’ultimo mezzo secolo tutto il sud Europa: Spagna, Grecia, Portogallo, Italia è stato governato da regimi fascisti, e che milioni di ebrei sono stati gasati in forni europei.
Vorrei far notare che nel mondo arabo comunità cristiane hanno resistito migliaia di anni, mentre la presenza islamica in Europa, floridissima in Spagna ed in Sicilia, è stata letteralmente cancellata dalla memoria.
No, l’Europa, se guardiamo alla sua storia, non ha il monopolio della democrazia. Se oggi nel nostro continente possiamo godere d'invidiabili condizioni di libertà e di benessere, ciò è dovuto alle lotte che i lavoratori e le donne europee hanno fatto nell’ultimo secolo.
La lotta per i diritti, per la pace e per la libertà è una lotta universale, non è appannaggio di una sola civiltà, anche se nei diversi contesti culturali può essere differentemente declinata.
Centrale nella nostra ipotesi di lavoro per i prossimi anni è allora un deciso impegno a sostegno della intellettualità e della società civile, laica e religiosa, nel suo ruolo per affrontare i problemi sociali, per democratizzare la politica e nel lottare per i diritti.
In questo senso, riteniamo fondamentale il percorso che dal prossimo forum sociale mediterraneo (che si terrà a giugno a Barcellona) porterà al primo forum sociale mondiale in un paese arabo previsto per il 2006 in Marocco ed oltre. L’integrazione del mondo arabo nel movimento internazionale per un nuovo mondo possibile è un passaggio fondamentale.
Perciò, rivendichiamo un cambiamento fondamentale delle politiche europee verso il medio oriente. Abbiamo detto che l’approccio europeo è diverso da quello americano: è vero. Il neoconservatore Kagan sostiene, dolendosene, che europei e americani sono “come venusiani e marziani”.
Lì abbiamo una politica basata sulla punizione, qui sugli incentivi, lì abbiamo una politica che privilegia la guerra, qui i rapporti economici. C’è quindi una base da cui partire per un nuovo ruolo europeo, ma c’è molto da cambiare.

1. Costruire un nuovo approccio d’area
Ci orientiamo a superare una visione del M. O. come somma di situazioni, che affermiamo da tempo essere connesse, salvo poi continuare a trattarle separatamente.
Non vi è soluzione della questione palestinese, libanese, irachena, iraniana, kurda, della questione della povertà e della conseguente emigrazione, se non in una svolta politica in tutta l’area in cui la rivendicazione della sovranità, della fine del neocolonialismo, della fine delle occupazioni e delle guerre sia coniugata alla rivendicazione dei diritti delle persone. Su questa strada- pare - si stiano incamminando molti in Medio Oriente. Noi vorremmo tentare di essere a loro fianco.
Per essere all’altezza di tale impegno abbiamo da fare molta strada. In primo luogo, dobbiamo conoscere meglio la situazione, le persone, i movimenti, migliorare l’analisi e le proposte.
Per evitare il rischio di risultare parziale o ideologica, la nostra conoscenza non può essere cartacea, ma basata sull’esperienza concreta che nasce dalla presenza sui luoghi, a partire da iniziative di solidarietà. Occorre dunque individuare le forme di questa presenza essenziale.
L’obiettivo potrebbe essere quello di costruire contatti, presenze e/o attività nei principali paesi dell’area nel corso del prossimo triennio.

2. Sviluppare rapporti di partenariato con la società civile mediorientale per la sovranità e i diritti
Occorre in particolare che si sviluppino la conoscenza e la cooperazione con la società civile araba e mediorientale, stabilendo collaborazioni con le organizzazioni italiane ed europee presenti nell’area e che condividano tale approccio.
Un passaggio di questo percorso potrebbe essere un incontro, in Italia, fra organizzazioni italiane che operano in M. O. e soggetti che in medio oriente vivono ed operano: un convegno sulla e con la società civile mediorientale, sulle prospettive di collaborazione da realizzarsi entro il prossimo anno.
Coinvolgendo tutti i nostri partner nell’analisi, nei percorsi e nelle prospettive, allargando a tutto il M. O. il progetto “Costruire ponti di pace”.

* estratto dalla relazione di Fabio Alberti alla XXV Assemblea nazionale di “Un ponte per…”, svoltasi a Roma nei giorni 15, 16 e 17 aprile 2005. Info: fabio.alberti@tiscali.it


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